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BFI London Film Festival - Assassination Nation

Pubblicato il 3 ottobre 2018 da Cristina Canfora

VOTO:

BFI London Film Festival - Assassination Nation

Avvertenza: la seguente recensione tratterà temi scottanti quali bullismo, abusi, classismo, uccisioni, alcolismo, uso di droghe, socials, machismo, omofobia, transfobia, armi, nazionalismo, razzismo, rapimenti, "male gaze", sessismo, bestemmie, tortura, violenza, "gore", il fragile ego maschile. In ordine sparso e non esaustivo. Procedendo con la lettura si accosente ai termini e alle condizioni sopracitate. L’annuncio, qui come nei titoli iniziali di Assassination Nation del regista e sceneggiatore Sam Leviston, è una dichiarazione di intenti, un trucchetto patinato per dettare il tono di ciò che segue.

Salem, la scena si apre su una cittadina in preda all’isteria. Oggetto del contendere quattro attraenti liceali, le nuove streghe dell’epoca di Instagram. Lily (Odessa Young), Bex (Hari Nef), Sarah (Suki Waterhouse) and Em (Abra) sono schiette, perspicaci e trendy, ma soprattutto sono femministe, con la f maiuscola. Dopo che un misterioso hacker pubblica su internet i segreti più sordidi di emeriti cittadini, le ragazze si trovano coinvolte in una moderna caccia alle streghe.
Colpevoli di essersi espresse liberamente, di essere padrone del loro corpo e aver esposto l’ipocrisia di un paese che predica bene ma agisce in maniera completamente diversa. La luce dell’alba splenderà dopo un lungo bagno di sangue.

Un film difficile da digerire per moltissimi versi: la prima metà è densa di slang e frasi mugugnate alla velocità della luce, split screen a pioggia, luci al neon (ormai trite e ritrite per il genere), riflessioni sui social media e sulla privacy superficiali e inconcludenti. Il nazionalismo becero viene deriso ma allo stesso tempo accompagnato dall’invadenza della bandiera americana come vessillo della libertà d’espressione. Tanto, troppo "go big or go home". Ovvero quella filosofia secondo cui la sottigliezza non esiste. I clichè, poi, si susseguono numerosi. Scelte volontarie per ridicolizzare la società contemporanea o facile via di fuga da una trama che ricorda pedestremente la serie horror The Purge? Dalla perversione pornografica dell’uomo più vecchio attratto dalla freschezza e l’inesperienza delle ragazzine (American Beauty, Lolita, Lost in Translation, per citare esempi alti), alla figura del politico sessualmente compromesso, dall’insegnante pedofilo ai genitori bigotti, dal polizziotto ignorante ai giocatori di football omofobi. C’è poco di nuovo sotto il sole di Salem.

Il riscatto arriva nella parte finale, quando ormai il gioco al massacro è stato innescato e ci si può concentrare sulla parte comica e sui fiumi di porpora tarantiniani piuttosto che soffrire osservando donne giudicate, umiliate, torturate, violentate da personaggi viscidi e bidimensionali (uno di essi è l’estremamente talentuoso Bill Skarsgård che ha fatto dei personaggi spinosi il suo cavallo di battaglia). Una finzione che è troppo vicina alla dolorosa realtà per essere apprezzabile dal sesso femminile (si, se a dirigere fosse stata una donna il risultato sarebbe stato nettamente diverso). Degna di lodi è la scena dedicata all’irruzione in casa di Em, a detta di Leviston girata in sole dieci ore e con zero margine di errore. Una meraviglia di coreografica precisione, con movimenti di macchina eleganti a seguire l’azione mantenendo il mistero e regalando quegli attimi da fiato sospeso che tanto servirebbero al resto della pellicola per inalzarsi dalle gratuità della prima ora e tre quarti. Odessa Young, l’eroina del gruppo, stupisce in una performance che lancerà la sua carriera di stellina emergente. Ben costruito è anche il personaggio di Hari Nef, Bex, una teenager trans che si approccia alla vita con tagliente umorismo e fronteggia a testa alta i drammi adolescenziali.

Alcune idee sono spunti interessanti di dibattito e certi elementi potrebbero quasi scavalcare la finzione cinematografica e approdare nella vita reale. Per esempio quei cappotti rossi iconici che vogliono trascendere la persona e trasformarla in emblema del movimento dei diritti della donna (che siano i sostituti della tutina gialla di Kill Bill o dei codini di Harley Quinn questo Halloween?), o la guerra tra i sessi, con l’ottussità maschile contrapposta alla resilienza femminile, come commentario sociale ma così ironico da non spaventare come una verità assoluta.

Una riflessione dopo la visione riguarda i commenti intravisti sui social al seguito del trailer. Dire che rappresentano al 100% la viltà che Leviston cerca di stigmatizzare sullo schermo è quasi riduttivo. Questo aspetto dell’essere umano ci terrorizza, l’odio che esso è capace di generare con un semplice commento nella disperata ricerca della convalida da parte dei suoi simili è demoralizzante. Esisto perchè ti attacco. L’odio che genera odio, e fa crescere in maniera esponenziale la paura verso il prossimo immobilizzerà le generazioni future, incapaci di interagire faccia a faccia senza i filtri di Instagram.

Forse è sbagliato attribuire un messaggio a questa particolare pellicola, forse il modo migliore per godere a pieno di questi 110 minuti di montagne russe è con una scatola gigante di pop corn in mano, i tuoi amici e qualche birra in corpo. Come suggeriscono le stesse attrici protagoniste. Ovviamente al cinema.


CAST & CREDITS

(Assassination Nation); Regia: Sam Leviston; sceneggiatura: Sam Leviston; fotografia: Marcell Rév; montaggio: Ron Patane; musica: Ian Hultquist; interpreti: Odessa Young, Hari Nef, Suki Waterhouse, Abra, Bill Skarsgård, Bella Thorne, Joel McHale; produzione: David S Goyer, Kevin Turen, Anita Gou, Matthew J Malek, Manu Gargi, Aaron L Gilbert; distribuzione: Universal Pictures (UK); origine: USA, 2018; durata: 110’


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