CINEMA CIELO

L’ultima creazione di Danio Manfredini ha avuto inizio da un “tradimento” del teatro per il cinema (il desiderio di partenza di trarre un film dal romanzo di Genet Nostra Signora dei Fiori) e, dopo un itinerario lungo e tortuoso, caratteristica del lavoro come processo organico di questo artista sul “corpo” del teatro (=di sé e degli attori), è tornata ad un teatro che parlerebbe di e attraverso il cinema (il “Cinema Cielo”, a luci rosse, chiuso da anni e la banda sonora del film, parlato e suono in presa diretta, che è stato alfine il ruolo affidato dall’ideatore alla lingua di Genet nello spettacolo). Complesso il discorso di Manfredini, il cui universo creativo è denso di influenze colte e di immaginarii e temi “ossessivi” personali ricorrenti, la cui sedimentazione, fusione e disseminazione, conduce ad un’articolata stratificazione di percorsi e suggestioni interpretative. Un’immagine riprodotta dell’esterno del “Cinema Cielo” viene proiettata su un telo bianco teso ai due estremi della scena/sala, al centro, in terra, raggomitolato di spalle, Manfredini veste i panni di un angelo caduto con un paio di alucce rosse, calze di paillettes e sorta di tutù/palloncino, un misto di goffo e spudorato: è un transessuale la cui vicenda, che tratteggia brevemente, è intrecciata alla storia di quel locale. Con una voluta ed efficacissima distonìa nella mimica e nella vocalità in alterno equilibrio tra il rompere in singhiozzi e l’enunciazione secca non di deviazione ma di scavo lucido in affettività umane vissute e mostrate “senza pelle”, in un vis à vis buffo e nudo, dà avvio alle circa due ore di viaggio all’interno di una sala cinematografica a luci rosse che la scenografia riproduce con dettagliata precisione, specularmente allo sguardo degli spettatori, seduti di fronte a: due blocchi paralleli di cinque file di sedie, l’uscita principale, centrale, alle loro spalle, le altre due più piccole ai lati di questa (sul vano di sinistra, si apre un secondo ambiente interno “suggerito”: la cassa, poi le uscite di sicurezza sulle pareti laterali e infine il WC, terzo ambiente chiuso, all’angolo destro). “Un fuori non esiste”, è assente per segni, presente per litote; esiste solo in forma di suono: è il Nostra Signora dei Fiori di Genet, reso il parlato - alle spalle degli spettatori in carne ed ossa - dei personaggi di un film cosiddetto “hard” (a cui assiste la variegata tipologia di clienti) che fornisce potente densità alla trama, “abitando” tout court la sala del Cinema. La storia (del transessuale Louis, soprannominato Divine e della sua vicenda di prostituzione, che procede via via verso la morte nella disperazione, del suo protettore Mignon e di Nostra Signora dei Fiori, assassino, che finirà decapitato) dura, corredata dal suono-ambiente, “scorre” per isole sonore su uno schermo e in un prodotto filmico ipotetici, assenti (al loro posto si trova lo spazio destinato dall’ideatore dello spettacolo ad ospitare gli spettatori in carne ed ossa del luogo teatrale prefissato). E’ parallela, a tratti apparentemente in rapporto di similitudine, con i micronuclei narrativi dei circa trenta personaggi che si alternano nella sala cinematografica (ricostruita) dove protagonista diventa la necrosi (i clienti vengono appellati “cadaveri”) dei sentimenti, dei desideri, delle necessità e prospettive, intesa sia come cupio dissolvi incubica, sia come assenza di uscita/speranza, di salvezza. Tutti i personaggi (e l’intero percorso dello spettacolo= dell’artista) sono occasioni di soffermare lo sguardo sulle condizioni umane dei borderline, di chi vive ai margini, rivivendone in modo asciutto, lucido una sofferenza secca, totale. Questo è il fil rouge emozionale, “semplice” nella sua essenza, trattato in un tessuto performativo infinitamente denso e tramite un’ideazione scenica di schiacciante lucidità, proposto da Danio Manfredini allo spettatore che ha fatto ingresso nella sua “stanza visiva”.
Nota: è utile un breve approfondimento sulla comunicazione visiva - sul segno autoriale che fonda l’estetica e il disegno scenico di questo spettacolo - a partire da uno spunto tratto da Dentro la stanza visiva, articolo di Raimondo Guarino pubblicato sulla rivista “ART’o” numero dieci, gennaio 2002.
Il segno autoriale, prima che estetico e scenico, impresso a questo spettacolo da Danio Manfredini, assolutamente non casuale, si salda in un punto di congiunzione ideale tra teoria e pratica, sapere e saper fare - in relazione e a confronto con un cinema al quale qui ha decurtato scientemente potenza, economia ed efficacia e che, quindi, ha reso altro luogo utile per accogliere il teatro - innestandosi in un ramo di riflessioni sulle tendenze contemporanee (comuni, con soluzioni ed esiti espressivi eterogenei, a gruppi quali Teatrino Clandestino, Masque Teatro, Fanny & Alexander...) relative alla comunicazione visiva che avviene in teatro, alla riaffermazione di quest’ultimo come “luogo di resistenza del vedere”(artic. cit.) oltre che al suo rapporto necessario con le macchine della visione.
La sala cinematografica ricostruita, i suoi abitanti, l’insieme dei suoi segni, sembrerebbero inghiottire lo sguardo degli attori-spettatori e degli spettatori “vivi” lì di fronte. E’ tramite lo sguardo di questi ultimi che si attua (nel momento in cui l’agire in scena esiste, ed esso esiste in quanto è visto) la comunicazione visiva - intesa come immagine che è relazione e contemporaneamente anche come insieme di immagini del presunto film Nostra Signora dei Fiori, inizio del percorso di lavoro di Manfredini e mai realizzato -ed è tale sguardo, specchiandosi e incrociandosi con quello degli attori (che a loro volta ascoltano, guardandolo, un film assente, privato d’immagini e parallelamente, in quanto attori “efficaci”, producono tramite associazioni e montaggio “interno” ognuno il proprio film interiore per rendere viva la propria partitura e captare l’attenzione e l’emozione dello spettatore), che si relaziona e si confronta con il volume di quella “stanza visiva” che è il teatro come luogo del vedere attraverso segni visibili e materiali (ma che qui si attua due volte - luogo del vedere del teatro e di un cinema negato che si fa altro luogo per il teatro -) e fa sì che lì, in quel volume, l’immagine - soltanto evocata, decurtata al cinema - realmente riprenda corpo: ad esempio, quello maschile con la maschera taurina che esegue vigorosi passi di flamenco al termine dello spettacolo, si accascia con respiro affannoso e muore dietro all’immagine riprodotta sul telo bianco (sipario di chiusura) del “Cinema Cielo” e/o del disegno in chiaroscuro di un etereo corpo di donna disteso.
In tal modo, il teatro giunge ad esaltare un princìpio preesistente ma omogeneo al cinema, che unisce le menti con un nesso invisibile: il pensiero-occhio; e lo fa con impronta d’autore.
[luglio 2003]
photo: © Carlo Manzato, 1998. Tutti i diritti riservati.
ideazione e regia: Danio Manfredini
luci: Maurizio Viani
interpreti: Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Danio Manfredini, Giuseppe Semeraro
produzione: Fondazione Emilia Romagna Teatro, Santarcangelo dei Teatri
