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Dalida

Pubblicato il 12 agosto 2017 da Matteo Galli
VOTO:


Dalida

A differenza di quanto è accaduto in diversi altri paesi europei – Francia, Belgio, Grecia, Polonia, Portogallo e Germania – il biopic di Lisa Azuelos su Dalida è passato in Italia solamente in TV, lo ha trasmesso RaiUno (uno dei partner di una coproduzione costosa che vede coinvolti molti produttori, per lo più di origine francese, ma c’è anche una quota marocchina) a metà febbraio di quest’anno. Altrove invece il film è uscito nelle sale. Se non vediamo male, non è prevista all’orizzonte un’uscita nei cinema italiani. Ed è un peccato perché il film, pur non essendo un capolavoro, merita più di un distratto passaggio televisivo, anche perché non risponde né nella struttura - almeno nella prima parte - piuttosto complessa, né nelle ambizioni registiche al tipico biopic televisivo in stile RaiUno. Dalida al cinema non sfigura affatto, malgrado una certa qual meccanicità nel cercare le somiglianze (ora più riuscite ora meno) fra i personaggi reali e gli attori che li interpretano. Interpretata dalla tutto sommato inesperta ma brava Sveva Alviti (che di professione fa più che altro la modella) la protagonista, ad esempio, è semplicemente più bella e un po’ più solare di quanto non fosse Dalida. Alessandro Borghi ha fatto di Luigi Tenco qua e là una macchietta un po’ troppo nevrotica e schizzata, e Riccardo Scamarcio - che interpreta il fratello Bruno Gigliotti, detto Orlando, da un certo punto in avanti anche il produttore di Dalida nonché una delle fonti biografiche principali del film che stiamo vedendo – trasforma il personaggio non di rado, sia nella gestualità che nell’abbigliamento, in un personaggio caricaturale dai tratti molto, troppo queer.
Tenco è la chiave di volta strutturale del film perché a seguito del suo suicidio nel gennaio del 1967, dopo il fallimento di Ciao amore ciao a Sanremo, anche Dalida compirà il suo primo tentativo di suicidio in un albergo di Parigi, e salvata per il rotto della cuffia da una cameriera verrà internata in una clinica. È proprio da qui parte il film, è da qui che si dipartono una serie di colloqui dello psichiatra con amici e parenti che le sono stati vicini, volti a ricostruire in ordine quasi mai cronologico il passato della cantante: dall’infanzia egiziana (Iolanda Gigliotti nasce al Cairo nel 1933 da genitori calabresi residenti nella capitale egiziana, il padre, accusato durante la guerra di filonazismo viene deportato dalle truppe alleate) ai primi successi, ai successi travolgenti a suon di dischi d’oro e dischi di platino, alla relazione, poi matrimonio con il produttore discografico Lucien Morisse, poi vari altri amorazzi, fino ad arrivare appunto alla relazione con Tenco.
Ma Luigi Tenco non è solo la chiave di volta strutturale bensì anche il verbalizzatore, insieme a Dalida, in una scena centrale che ritorna più volte nel film, del conflitto di fondo su cui si regge la pellicola: lo heideggeriano “Sein zum Tod”, essere per la morte di cui, in una posa post-esistenzialista, Tenco si fa cupamente portavoce, contrapposto all’essere per l’amore di cui invece si fa fiera sostenitrice Dalida contraddicendo l’amante. La storia del film racconta, pur omettendo di rintracciare una serie precisa di rapporti causa effetto, l’incapacità della protagonista di far trionfare il suo punto di vista, ossia l’amore e finisce per celebrare e scandire la scia di morte che ineluttabile la perseguiterà per tutta la vita (dopo Tenco almeno altri due partner, magari non solo per amore, finiscono per suicidarsi), concretandosi in modo tragico e definitivo nella notte fra il 2 e il 3 maggio del 1987, quando anche la cantante si darà per vinta e si lascerà andare alla depressione assumendo una potente dose di barbiturici.
In mezzo a tutto questo il film racconta, chiudendo l’analessi iniziale a partire dal primo tentativo di suicidio, e come una sorta di Stationendrama tutta una serie di passaggi per lo più tragici (per esempio una gravidanza interrotta), ora felici (successi planetari, grandi comeback fino a divenire ormai cinquantenne una eroina della disco music che si esibisce nei palasport) la vita della cantante, dando moltissimo spazio alle sue canzoni, ovviamente interpretate dalla voce autentica della cantante, con una regia mai banale e, semmai, una sceneggiatura che a tratti cede alle tentazioni del musicarello, istituendo dei parallelismi un po’ forzati fra i testi delle canzoni e alcuni suoi snodi biografici. Nell’insieme si tratta di un film gradevole, cui forse qualche taglio non avrebbe fatto male, capace, nei suoi momenti migliori, anche di fornire uno spaccato dell’epoca d’oro della canzone italo-francese, o franco-italiana, dello show-business, di case discografiche potentissime, del jet set abitato da improbabili playboy, con una filologica cura dei setting e dell’abbigliamento.


(Dalida). Regia: Lisa Azuelos sceneggiatura: Catherine Rihoit, Orlando, Lisa Azuelos, Jacques Pessis; fotografia: Antoine Sanier; montaggio: Baptiste Druot; interpreti: Sveva Alviti (Dalida), Riccardo Scamarcio (Orlando), Jean-Paul Rouve (Lucien Morisse), Alessandro Borghi (Luigi Tenco), Nicolas Duvauchelle (Richard Chanfray), Vincent Perez (Eddie Barclay); produzione: Bethsabée Mucho, Pathé Productions, TF1 Film Productions, RaiCinema,Universal Music Production origine: Francia, Italia, Marocco 2016; durata: 124’.


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