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Divina Commedia - Purgatorio

Pubblicato il 16 febbraio 2009 da Filippo Ferraresi


Divina Commedia - Purgatorio

Strasburgo – Teatro Maillon Romeo Castellucci mette in scena la trilogia ispirata alla Divina Commedia di Dante, Inferno, Purgatorio e Paradiso, ospitato da uno dei suoi più fedeli partner europei, il Maillon – Théâtre de Strasbourg; opera immensa sia dal punto di vista formale che intellettuale, la Trilogia è una creazione realizzata per il Festival d’Avignon 2008, del quale Romeo Castellucci è stato artista associato.

Purgatorio è uno spettacolo che percorre due sentieri difficili e pericolosi: forma e sostanza, ricerca della perfezione tecnica e riflessione teologica. Ancora una volta la Socìetas Raffaello Sanzio approda a lidi di coscienza e di conoscenza assoluti, gettando in pasto al pubblico dubbi sempre nuovi. Lo spettacolo non si presta a facili scomposizioni tematiche, lasciando così oscura tutta la sfera filosofica, mentre si “dona” completamente dal punto di vista formale, con la sua grandiosa scenografia, gli artifici tecnici, l’imponente colonna sonora. Strasburgo accoglie con grande partecipazione Purgatorio, confermando di essere un centro estremamente importante per il teatro di ricerca europeo. L’attesa si percepiva fortissima nella platea, avvalorando l’aura di mistica tensione che circonda ogni appuntamento della compagnia. Il sipario si alza, prima sorpresa: il quadro iniziale è una cucina stile anni ’70, grande e funzionale, dove i minimi dettagli trovano ognuno la propria collocazione. La scelta di Castellucci di partire con una scenografia così fortemente naturalista e del tutto codificabile è assolutamente nuova, (se si eccettuano alcuni passaggi di M.#10 Marseille o C.#11 Cesena della Tragedia Endogonidia). Una madre prepara il pranzo mentre parla col figlio, un bambino di circa dieci anni. I loro dialoghi sono vuoti e perfettamente inseriti nella strana atmosfera di freddezza che domina la casa. Macchinosi e complicati cambi si scena rivelano la stanza del bambino e poi il salotto, dove prendono vita scene che non dicono ancora molto rispetto al tema centrale dell’opera. Il quarto quadro introduce la figura del padre, che rientra da un viaggio di lavoro, è stanco e viene accolto dalla moglie che gli riscalda la cena. Fin qui risulta chiara soltanto la descrizione di una tipica famiglia anni ’70, inquadrata in precisi schemi di comportamento, e rispettosa di una fredda geometria nei i rapporti parentali. Si percepisce, in lontananza, anche una critica alla banalità della vita quotidiana, fatta di gesti comuni e ripetuti. Un cerchio di tulle nero scende dall’alto e diviene lo schermo sul quale vengono proiettate le didascalie delle azioni che avvengono in scena. Queste descrizioni anticipano di alcuni secondi l’esecuzione degli attori, creando l’illusione che questo misterioso occhio nero sia preimpostato per descrivere azioni sempre uguali. Ma il cerchio di tulle inizia a generare parole che non hanno più alcuna corrispondenza sulla scena, come se la realtà stesse fuggendo dall’ordine. Avvertiamo allora che qualcosa si è rotto nell’ingranaggio dello spettacolo e, per metafora, della vita. La lentezza e lo schematismo della prima parte dello spettacolo non erano che il trampolino di lancio per la scena che seguirà, che rappresenta il fuoco di tutta l’opera, e di tutta la Trilogia, poiché cade temporalmente a metà Purgatorio. Il marito chiede alla moglie di poter vedere il bambino e lei, come intuendo qualcosa, scoppia in lacrime supplicandolo di “non farlo”. Risoluto, e come investito dalla necessità di dover compiere un sacrificio, il padre chiama il bambino. La colonna sonora di Scott Gibbons in questo frangente ha già introdotto un’atmosfera “terribilis”, grazie ai flussi sonori a metà strada fra note musicali e rumori, create a partire, si legge dal libretto stampa dello spettacolo, da resti umani, ossa, fluidi, piano, shofar e un intervento su “Für Alina” di Arvo Pärt. Il padre e il figlio, solennemente, salgono le scale che portano al secondo piano, luogo invisibile allo spettatore, uscendo perciò fuori dal campo visivo. Ha inizio una violenza familiare che “si dilata in un piano di una inquietudine vertiginosa” (Castellucci), rivelata dalle urla del bimbo che subisce il fisico del padre, dalle parole dissacranti dell’adulto (“apri di più la bocca”) e dall’inaccettabile crudeltà del non mostrare la scena, lasciando che si plasmi nella mente dello spettatore, rendendolo autore e creatore di quegli attimi invisibili. Come nel teatro greco, le sequenze violente non sono mai agite sul palco, sono o-scene. Lo spettatore ne sente solo i suoni, le urla, le imprecazioni, venendo in tal modo prepotentemente immerso nell’astrazione del terrore, nella sua forma vitrea, nella sua essenza. In platea molte persone se ne vanno commentando a voce alta, una signora seduta davanti a noi sviene per alcuni secondi. La violenza scenica del teatro di Romeo Castellucci conduce lo spettatore ad un bivio, ad un punto di non ritorno tra la nascita di dubbi escatologici e il rifiuto, la volontà di non sapere. Finita la violenza l’adulto scende le scale e riappare al pubblico sconvolto e barcollante, si siede; dopo pochi minuti scende il bambino, provato anche lui, sale sulle ginocchia del padre e gli sussurra: “non preoccuparti, è tutto finito, non preoccuparti papà”. Fin qui non siamo che a metà piéce ma la rivoluzione copernicana della Teologia ha già avuto luogo: il concetto di "perdono" è stato rielaborato e problematizzato. Nel dottrina cristiana, ispirata da Dante stesso, il Purgatorio è il luogo dove le anime devono guadagnare la Grazia di Dio tramite la sofferenza fisica. Tra Dio e l’uomo c’è quindi un solo grado di separazione. Romeo Castellucci scardina e ripensa questo assunto: “il padre che tradisce è il Creatore che commette un crimine contro la creatura. Il bisogno di essere perdonato, il bisogno di essere liberato da ogni impurità, è quello del Creatore stesso. Il bisogno umano di abbracciarsi è, infatti, il bisogno del Creatore nella sua abissale solitudine. La teologia ci dice, a differenza della psicanalisi, la necessità di uccidere il figlio” (Castellucci). È Dio che ha bisogno di essere perdonato dal figlio, perché solo tramite questa capacità egli accede alla Luce; il gesto più vicino a Dio che può compiere l’uomo è quello di perdonare un padre violentatore. Il più grande perdono deve scaturire dalla più grande violenza. A ben vedere, questo delicato passaggio è una potente metafora di alcuni “momenti teologici”: la salita delle scale, ad esempio, non è altro che la scalata del Monte Moriah di Abramo, per sacrificare Isacco. L’inaccettabile frase “apri la bocca”, simboleggia l’ancestrale alito della vita che Dio soffia nella bocca dell’uomo e la sofferenza del bambino è la sofferenza della creatura che viene alla vita, ri-nasce purificata, pronta ad accogliere la Luce. Lo spettacolo dopo questa scena “spartiacque” cambia totalmente ritmo, estetica, finalità e dimensione. Una sorta di terremoto modifica il quadro, riducendo il boccascena ad una grande iride al di la della quale, poco a poco, si concretizzano delle immagini: una meravigliosa processione di fiori, enormi, che sfilano lenti, poi un volo panoramico su di essi esplode in sfumature di colori e di temperature, rossi abbaglianti, verdi smeraldi, azzurri e nuvole. Sarebbe difficile ora, oltre che inutile, dare un significato a questo passaggio; il principio fondamentale della riflessione teatrale di Castellucci vede lo spettatore come il “palcoscenico definitivo”, cioè attribuisce assoluta validità alla sua interpretazione dello spettacolo, tuttavia sembra che in Purgatorio questo concetto vacilli. È impossibile infatti penetrare lo spettacolo senza la Teologia, dottrina filosofica codificata e didascalica, complessa e misteriosa. Ne segue che una libera interpretazione dello spettatore, che lasciasse ai suoi sentimenti e alle sue sensazioni il compito di definire per intero lo spettacolo, sarebbe fuorviante o porterebbe a conclusioni del tutto erronee sul significato finale dello spettacolo. Che la processione dei fiori sia il Giardino Terrestre o no, poco importa, poiché queste suggestione visive tipiche della Raffaello Sanzio non pretendono codifiche. Mentre la comprensione di tutta la prima parte dello spettacolo dipende dalla Teologia. Occorre credere, non di assistere al Purgatorio, ma di viverlo. In questo senso l’intera opera va riconsiderata in chiave partecipativa. Castellucci vuole portare lo spettatore al transfert, vuole dargli l’opportunità di vivere il suo Purgatorio personale. La violenza del passaggio, è ora agita su di noi che siamo in sala e assistiamo al dispiegamento degli eventi scenici (ma anche metafisici); il nostro dubbio è tra la realtà della serata a teatro e l’irrealtà del vivere proprio in questi attimi il Purgatorio. La violenza che subiamo è il non aver scelto di intraprendere questo viaggio; la sofferenza è la durezza dello spettacolo. Ma come ci si può illudere di vivere il Purgatorio? Effettivamente si può solo partecipare alla genesi di una dimensione “irradiata dal Creatore”, quindi dall’artista, che nel tentativo di mostrare l’aldilà si innalza alla natura di Dio, divenendo creatore egli stesso. Già in “Genesi” Romeo Castellucci descrisse il suo lavoro paragonandolo a quello di Dio; la Genesi è un testo terribile perché Dio è nella condizione di dover creare tutto dal nulla, di dover concepire il cosmo intero. Come l’artista si trova davanti il vuoto dello spazio scenico da riempire di segni e significanti. Il credere di assistere a una riproduzione o al vero dispiegarsi del Purgatorio è la prova a cui il regista sottopone lo spettatore. Ciò che viene scosso fin dagli abissi è il credere. Allo spettatore la decisione di superare l’impianto visivo o di rimanere ancorato alla realtà sensibile. Il teatro è ancora una volta la scusa e l’inganno necessario a creare il dubbio. La pretesa di paragonarsi a Dio-Creatore rischia di far deragliare tutto il complesso visivo e smantellare il ragionamento filosofico, ma già Dante si sentiva investito da una missione divina, ed era assolutamente convinto di aver compiuto l’“itinerarium mentis ad Deum”. La pretesa di Castellucci non fa altro che ricalcare questa certezza del sommo poeta. Nell’ultimo quadro, il padre, adesso interpretato da un attore diversamente abile, è in preda alle convulsioni. Le parabole sonore di Gibbons sembrano dare forma alle onde invisibili, riempiendo tutto lo spazio vuoto. Entra il figlio, che non è più un bambino ma un uomo cresciuto, riconoscibile perché indossa gli stessi vestiti. Cerca di calmare il padre, si sdraia sopra di lui e ne assorbe l’isterico movimento, lo depura dal peccato, accettando di sostenerne il peso al posto suo. La scalata verso l’assoluto è compiuta...quanto di umano era possibile è stato fatto. Non rimane, ora, che l’eterna contemplazione, il Paradiso.


Regia scene, luci, costumi: Romeo Castellucci Produzione: Societas RaffaelloSanzio. 2008 Festival di Avignon- Francia Con: Irena Radmanovic, Pier Paolo Zimmermann, Sergio Scarlatella, Juri Roverato, Davide Savorani Musica originale: Scott Gibbons Coerografie: Sindy Van Acker e Romeo Castellucci Collaborazione alla scenografia: Giacomo Strada Scultura di scena, meccanismi e prosthesis: Giovanna Amoroso e Istvan Zimmermann, Plastikart automazioni: Giuseppe Contini immagini: Zapruder Web Info: Maillon-Théâtre, Socìetas Raffaello Sanzio


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