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Elle - Perché no

Pubblicato il 27 marzo 2017 da Matteo Galli


Elle - Perché no

Ma siamo davvero, davvero certi che Elle di Paul Verhoeven sia un grande film, come sembrano sostenere tutti, ma proprio tutti, al netto dei premi ricevuti, e non solo quelli attribuiti all’interprete principale Isabelle Huppert (sicuramente bravissima; ma quante volte, vivaddio, ha ormai interpretato in questi anni la borghese annoiata e perversa, è un sacrilegio parlare ormai di manierismo huppertiano?)? Tutti, ma proprio tutti hanno scomodato Claude Chabrol e la sua spietata ricognizione delle miserie della borghesia francese. Siamo certi che sia quello il modello? Tutti ma proprio tutti hanno scomodato Hitchcock (l’impianto thriller, l’uso della musica, la passeggiatina finale in cantina)? Ma avrebbe mai girato Hitchcock un film così improbabile? Elle non è un film di fantascienza e nemmeno un film fantastico, non è né RoboCopStarship Troopers ma un film che propone, fin dall’inizio, allo spettatore un patto, nella sostanza, realistico. Siamo nell’oggi, siamo a Parigi, ci vengono dispiegati, senza risparmio di uomini e mezzi (una coproduzione delle due cinematografie più ricche d’Europa, Francia e Germania) i più riconoscibili e consolidati riti della classe alto-borghese: arredamento, abbigliamento, automobili, cene. Già la caratterizzazione dell’ambiente di lavoro lascia perplessi; d’accordo che la cosa viene esplicitamente tematizzata, ma che Michelle e la sua amichetta Anne, provenendo dal mondo dell’editoria, siano adesso le dirigenti di una ditta di videogiochi necessita di molta ma davvero molta credulità da parte del pubblico. Per non parlare poi delle costellazioni familiari e relazionali: il padre, tanto pio (segnetto della croce sulla fronte delle ragazzine del quartiere), che all’improvviso sbrocca e ne ammazza mica tre o quattro, ma la bellezza di ventisette (compresi poi cani e gatti, come veniamo a sapere verso la fine), la madre ultraottantenne piena di botox che se la intende con nerboruti gigolò, il figlio Vincent mollaccione e la compagna nevrotica quanto e più di sua madre (costellazione sado-maso da Freud for dummies; quanto meno la loro relazione dà vita all’unico momento volontariamente/involontariamente ilare del film: “ È nato ’nu criaturo niro, niro/ E ’a mamma ’o chiamma Giro!/Sissignore, ’o chiamma Giro!”). Vogliamo forse parlare dell’amica/collega Anna, con figlio nato morto che chiede a Michelle di allattare Vincent (le due amiche hanno partorito insieme nel medesimo ospedale a poche ore di distanza), del di lei marito (nonché amante di Michelle), un brutalone che entra in ufficio, abbassa le veneziane e vuol venire al sodo? Ma no, limitiamoci – fra i tanti soggetti improbabili che incontriamo, tralasciando volutamente gli impiegati della ditta di videogames, si sa i nerd sono fatti così – ai meravigliosi vicini di casa, partendo non tanto da Patrick, il belloccio, broker violento e psicopatico (cosa vuoi aspettarti da un broker, in fondo?), ma dalla sua consorte, forse il personaggio più sensazionale dell’intero film (c’era già nel romanzo di Philippe Dijan? Non l’ho letto, temo che non lo leggerò), che risponde al parlante nome di Rebecca, donna religiosissima, groupie di papa Francesco, dalla spiccata sensibilità ecologista, che allestisce in giardino il presepe più kitsch che si ricordi, perdona, prega, ama e ringrazia Michelle per aver regalato al maritino appena appena sopra le righe qualche momento di felicità prima della bastonatona con fuoriuscita di materia cerebrale (accompagnata da un sinceramente allibito “Pourquoi?”), ad opera del figlio di Michelle, che dopo due ore di pugni e pugnette fa finalmente qualcosa, guadagnandosi finalmente il rispetto della compagna. Certo, se si parte dal presupposto del trauma infantile della povera Michelle, vittima non solo del padre ma di una selvaggia campagna di stampa volta a corresponsabilizzarla del massacro, è tutto possibile, plausibile, anche quarant’anni dopo, anche una drammaturgia evenemenziale in cui può succedere continuamente di tutto: la figlia umilia la madre durante la cena di Natale e, guarda caso, proprio quella sera la madre è colpita da un ictus, la figlia si decide ad andare a trovare il padre in galera e, guarda caso, il padre si suicida (senso di colpa quarant’anni dopo?), poi la figlia fa un incidente e in soccorso corre il broker psicopatico. E così via.
Ma forse abbiamo sbagliato metodo di approccio partendo dal patto realistico. Vogliamo allora definire Elle un film postmoderno e grottesco che si prende deliberatamente gioco del realismo, della rapporti di causa-effetto, del concetto freudiano di trauma e di tutta la vulgata psico-patologica? Sul piano drammaturgico (sceneggiatura e dialoghi) non regge nemmeno questa ipotesi, neanche se volessimo applicare al plot principale e alla sua protagonista la “logica” di un videogame, come qua e là, il regista potrebbe forse suggerirci. Sarebbe per una volta auspicabile di fronte a un film come questo interrogarsi sui presupposti teorico-critici che portano ad un apprezzamento così condiviso. L’interpretazione di Isabelle Huppert, certamente, non basta.


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