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Elogio del movimento: riflessioni su The rules of attraction

Pubblicato il 18 marzo 2004 da Alessandro Izzi


Elogio del movimento: riflessioni su The rules of attraction

Di fronte al Vuoto il cineasta deve sempre necessariamente alzare le mani in un gesto di impotenza. Definire i contorni del nulla, riuscire a rendere con appena una manciata di immagini ciò che sfugge ad ogni possibilità di definizione rischia sempre di ridursi ad un esercizio stilistico privo di autentico spessore. Gli artisti che hanno provato a muoversi in questa direzione, che hanno avvertito l’esigenza di orientare il proprio discorso verso l’assurdità stessa del nostro essere al mondo, si sono in genere orientati verso due forme di espressione a loro modo opposte eppure complementare: la fissità dolorosa e il movimento inconsulto, incontrollato, sfrenato. Nella prima categoria possiamo contare alcuni capolavori di finezza assoluta, opere in cui la staticità ricercata con assoluto rigore riesce davvero a farci percepire quel senso di inutilità sul quale abbiamo costruito le nostre stesse esistenze e che solo una nausea sartriana riesce a rendere palese per qualche breve momento. La vertigine che ci coglie alla visione di queste pellicole è, in un certo senso, tutta metafisica perché per il breve spazio della proiezione cinematografica il film riesce ad imporci la percezione di come la nostra vita altro non è se non una bolla di sapone sospesa nel nulla e sempre sul punto di esplodere al minimo soffio di vento, nello stesso silenzio che aveva accolto il suo lieve volteggiare tra i colori dell’arcobaleno. Eppure, proprio la fissità immota della macchina da presa (che spesso si riflette nella fissità non meno dolorosa dello sguardo dei vari personaggi persi in un nulla al di fuori della stessa inquadratura) riesce a mantenersi altra rispetto ai miseri destini che ci va raccontando. Lo sguardo del regista, quasi fosse ossessionato da un altrove immanente rispetto alla bieca materialità dell’inquadratura, riesce a farsi ponte con un qualcosa di insondabile, un senso del sacro, del divino che fa da controcanto alle esistenze dei vari personaggi. Nel Vuoto, dinnanzi al Vuoto, se non altro la possibilità, il barlume di un Senso. La seconda categoria è, invece, più affine a quello cui, culturalmente, abbiamo dato il nome di barocco. Al Vuoto insondabile viene, quindi, contrapposto il movimento incessante della macchina da presa che, come impazzita si muove nel contesto della storia ridisegnando traiettorie eccentriche, disarticolando il senso del racconto tradizionale, ricercando tra lacerti di tempo e di narrazione la possibilità di un qualcosa che possa giustificare la nostra stessa esistenza. Se il barocco secentesco derivava da una perdita di coordinate culturali certe (giungeva subito dopo le scoperte copernicane quando la fisica tradizionale, desunta fideisticamente dalla Bibbia, veniva definitivamente messa a tacere) e tentava di definirsi come ricerca assoluta di una forma capace di tramutare l’ansia in stupore, il barocco contemporaneo, da parte sua, si nutre di un senso di inutilità che le grandi Guerre e i più terribili crimini contro l’Umanità di cui il secolo scorso è stato capace di macchiarsi hanno saputo rendere fin troppo potente. Non c’è da stupirsi allora che certo minimalismo americano si basi sul tentativo di restituire questo clima di incertezza riuscendo a costruire sotto i nostri occhi le schegge di un microcosmo impazzito. Le ministorie di Carver (ricucite al cinema nell’impressionante America oggi di Altman), i romanzi di Bret Eston Ellis (al cinema con American Psycho e Rules of attraction) sono esempi fin troppo luminosi di un modo di rendere il senso del vuoto attraverso il movimento incessante, la ricerca spericolata che aspira, come nel caso del film di Avary, solo al raggiungimento di una FINE, di un rifugio per i personaggi entro il quale lo spettatore non può trovare alcun riposo. Avary, anzi, da parte sua, porta alle estreme conseguenze le logiche di un barocco sensato, destrutturando il racconto attraverso la splittatura dell’immagine, la moltiplicazione dei punti di vista, l’esasperazione delle logiche narrative. Con una cronologia capricciosa, con l’uso sincopato dello split screen (che in una sequenza memorabile vanifica la logica del campo contro campo tradizionale), con l’uso delle immagini “à rebours” (il riferimento al grande romanzo decadente non è casuale dal momento che il decadentismo è la logica conseguenza del barocco verso cui non ha mai nascosto una serie di decise ascendenze: si pensi a D’Annunzio in Italia e ai suoi versi ipertrofici degni di un Marino) il regista restituisce un mondo fisico impazzito ed inconoscibile come il moto delle particelle elementari (lo stesso titolo del romanzo e poi del film rimanda più al trattato scientifico che all’opera di finzione). Tutti questo attraverso un racconto che riparte ogni volta che un nuovo protagonista compare sulla scena, seguendone le traiettorie in un universo impazzito ed inconoscibile in un modo analogo (eppure molto diverso) a quello pensato da Gus Van Sant per il suo Elephant. Quest’ultimo film, anzi, sembrerebbe essere il tentativo di trovare una sintesi felice tra il barocchismo avaryano e la solitudine bressoniana, tra le due categorie di sguardo che abbiamo or ora presentato. Con in più quel franco amore per i propri personaggi che Avary non riesce o non può, comunque, rendere palese.

[marzo 2004]


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