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Elogio di un Maestro: Luca Ronconi non è più con noi

Pubblicato il 24 febbraio 2015 da Monia Manzo


Elogio di un Maestro: Luca Ronconi non è più con noi

Si è spento come una "candela al vento", inaspettatamente, un uomo, un maestro di molti, un vero demiurgo, un Prospero della parola, un padre del nostro teatro contemporaneo. In una notte di fine inverno Luca Ronconi ci ha lasciato, rendendoci orfani più del solito; amato, odiato, rispettato, sicuramente invidiato da molti suoi colleghi, che non sono mai riusciti ad eguagliarne la spontanea e conclamata genialità.

Era nato in Tunisia nel 1933, era cresciuto però nella capitale dove si era diplomato nel 1953 in recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica "Silvio D’Amico". Arrivano subito dopo i primi successi: esordisce come attore in Tre quarti di luna di Luigi Squarzina, diretto dallo stesso Squarzina e da Vittorio Gassman, e in seguito ha recitato, con altri registi come Orazio Costa, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni, esperienze che lo hanno formato come artista permettendogli di forgiare gli strumenti per iniziare a indagare a fondo il mondo teatrale.

Compresa la sua vocazione, Ronconi inizia a lavorare come regista nel 1963, con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volonté, e negli anni successivi emerge come autore dell’avanguardia teatrale ottenendo una notevole fama nel 1969 con Orlando furioso di Ariosto, nella versione di Edoardo Sanguineti con scenografia di Uberto Bertacca - grande e ormai mitico esperimento di teatro basato su uno studio quasi maniacale del testo. Lo spettacolo lo renderà celebre al di là dei confini nazionali, dandogli la possibilità di poterlo portare in molte città estere con una fortunata tourné, che aveva toccato anche New York. Nel 1974 dirige una versione cinematografica dello stesso dramma, con i celebri interpreti Massimo Foschi e Mariangela Melato, grande amica e sua valida compagna di lavoro.

Non sono mancati degli incarichi istituzionali nella sua vita, ruoli che non avevano nessuna origine politica, come accade spesso in Italia, ma che invece avevano a che fare con un riconoscimento meritocratico che gli hanno sempre aperto la strada a diventare detentore di grande responsabilità culturali nel nostro Paese: nel corso degli anni ha così collaborato con diverse istituzioni teatrali, tra cui la Biennale di Venezia, di cui è stato direttore della Sezione Teatro dal 1975 al 1977 mentre nel biennio successivo, 1977 - 1979, ha fondato e diretto il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato.

Nonostante i ruoli istituzionali più volte ricoperti, ciò che teniamo più a rimarcare del teatro "ronconiano" è la curiosità, la volontà di innovazione, di giocare con il testo, utilizzandolo in tutte le sue sfaccettature e scegliendo attori, molto spesso provenienti dalle scuole in cui nel tempo aveva insegnato. Massimo Popolizio, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Francesca Ciocchetti, Galatea Ranzi e molti altri che nonostante siano tutti caratterizzati da precisi elementi distintivi, si sono adattati in maniera assoluta alle indicazioni del maestro. A volte proprio per questo motivo Luca Ronconi ha raccolto aspre critiche da parte di coloro che adottavano una poetica opposta alla sua ma che al contempo non potevano non considerarlo come un punto di riferimento.

La dialettica teatrale e lo scontro tra visioni linguistiche e postmoderniste, in cui il testo era pressoché assente sono spesso scaturite dalle sue maestose regie: scandagliamento del testo, antinaturalismo (stile che ha fatto coniare addirittura il termine "ronconiano"), impressionanti scenografie, lunghe durate degli spettacoli, soprattutto in quelli degli anni 70-80: Orestea di Eschilo (1972), Utopia da Aristofane (1976), Baccanti di Euripide (1977), La torre di von Hofmannsthal (1978), Ignorabimus di Holz (1986), Tre sorelle di Cechov (1989). La sua visione da Gesamtkunstwerk viene espressa profondamente nell’imponente allestimento (oltre sessanta attori) dell’apocalittico Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, al Lingotto di Torino (1991) mentre nel 1994 ha diretto a Salisburgo I giganti della montagna di Pirandello.

Come non tenere conto della potenza della scena che si muove tra il pubblico? Sì perché come ci teneva a ribadire, il teatro in primis sarebbe dovuto arrivare alla gente: e quale mezzo migliore che coinvolgerlo fisicamente? Un teatro "ricco" quello di Ronconi, che ha goduto di un periodo sicuramente fortunato della nostra storia, ma senza il suo genio non si sarebbe sentito parlare tanto a lungo di un uomo timido e riservato, fuori da qualsiasi show business e sempre dedito all’insegnamento. I fortunati attori, suoi ex allievi, sanno perfettamente cosa intendeva dire con il termine "griglia di partenza", non una gabbia, ma dei riferimenti sicuri per poter essere un vero "artista", non un mero esecutore di un testo. Resta incredibile la versabilità delle opere scelte per essere rappresentate soprattutto negli ultimi anni della sua vita: dalla lirica, (celeberrimo Il viaggio a Reims nell’edizione del Festival Rossiniano di Pesaro con Claudio Abbado oppure Il Guglielmo Tell scaligero con Riccardo Muti e proprio in questi giorni sarebbe dovuto venire a Roma, per la prima volta impegnato all’Opera, per una Lucia di Lammermoor) a drammi basati su tematiche piuttosto tecniche come il suo ultimo Lehman Trilogy di Stefano Massini, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano dove è impressionante la capacità ronconiana di trasformare numeri, freddi calcoli in corpo ed emozioni.

Ciò che mancherà di più al mondo del teatro e dell’arte oltre alla sua persona sarà la sua magia di creare, la demiurgica bellezza di un mondo perfetto in base a delle norme inventate, quelle che Ronconi definiva indispensabili, affinché si potesse ordinare tanto materiale umano altrimenti difficile da poter rappresentare.


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