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Fantastic Mr. Wes

Pubblicato il 21 aprile 2010 da Lorenzo Vincenti


Fantastic Mr. Wes

“They’ll never catch me, man, ’cause I’m fuckin’ innocent.”

Che Wes Anderson sia oggi considerato uno dei filmaker più maturi e solidi della nuova generazione americana non è certo una sorpresa. Alla luce della vasta schiera di seguaci che il suo cinema ha raccolto e continua a raccogliere in giro per il mondo (studiosi, cinefili, adepti), vien da pensare che non sia nemmeno più uno di quegli assunti su cui sia necessario tanto discutere ormai. Soprattutto se si tiene conto del fatto che sono già passati dieci anni, da quando un nome “qualunque” del cinema americano come Martin Scorsese, anticipando gran parte della critica internazionale (soprattutto europea) lanciava dalle pagine di Esquire il suo personale elogio nei confronti dell’allora trentenne regista di Bottle Rocket e Rushmore ("Wes Anderson, at age thirty, has a very special kind of talent"). Parole che sapevano di investitura ufficiale allora e che oggi risuonano più come una normale anticipazione di un evento che, secondo il regista di Taxi driver e Toro scatenato, si sarebbe verificato di lì a poco: vale a dire la definitiva consacrazione di uno dei più talentuosi autori dell’epoca contemporanea. Ne è passato di tempo da quello storico articolo, il volto di quel ragazzo si è ormai fatto maturo e il talento ancora grezzo dell’epoca ha avuto modo e tempo di affinarsi grazie ad un percorso artistico particolarmente intenso e affascinante, non ricco dal punto di vista realizzativo ma certamente unico sotto l’aspetto della ricerca di una identità autoriale distinguibile. Tant’è che tutti oggi riconoscono a Wes Anderson il ruolo d’avanguardiste del nuovo millennio, colui che si è dimostrato capace più di chiunque altro di creare un cinema dall’impronta definita e incorruttibile. Ognuno riesce a vedere in lui l’artista che vive l’attimo della concezione cinematografica più come un naturale prolungamento di un modo d’essere che come l’urgenza espressiva dell’autore impegnato. E’ forse per questo che, dopo 15 anni di carriera e 6 film all’attivo, facciamo ormai fatica a scindere quella sua figura eccentrica, a metà strada tra un poeta francese maledetto e un dandy di fine ottocento, dallo stile visivo di tutti i suoi film, dalla stravagante sfilza di abiti dei suoi personaggi, dalla musicalità elegante e inconfondibile dell’architettura visiva, dalla composizione di quei vividi quadri d’insieme, così magnificamente dominati da una macchina da presa sempre forte e carismatica. Tipico elemento, quest’ultimo, di uno stile personale che pretende di riportare l’esplosione di colori, oggetti e linee di fuga presenti in quei quadri, entro i confini di un ordine illusorio. Non esiste probabilmente nessun caso nel cinema di oggi in cui ci sia così tanta congiunzione tra l’esprit che muove l’uomo da una parte e i risultati conseguenti che l’artista produce dall’altra. Si potrebbero forse citare i nomi di Tarantino (pulp quanto i suoi film), di Almodovar (sembra nato per ricoprire un ruolo nel suo cinema), di Kusturica e qualche altro. Ma nemmeno in loro troveremmo probabilmente la stessa intensità, la stessa magica alchimia prodotta dal cinema andersoniano. Se nei casi citati, infatti, a fare da sfondo al fare creativo esiste sempre una profonda appartenenza ad un luogo preciso (l’America “californiana” di Tarantino, la Spagna del giovane Pedro e la ex-Jugoslavia straziata vissuta da Emir), in Wes Anderson tutto questo svanisce nell’erranza del suo cinema, nell’anonimato dei suoi luoghi, nella non-appartenenza territoriale dei suoi tanti personaggi. Al pari di Herzog, Anderson è cittadino del mondo, è autore senza patria il cui compimento trova conforto nella fuga, nella ricerca di luoghi dell’anima. Non nel senso spirituale del termine ma in quello più intimo e personale (i luoghi dei suoi ricordi, delle sue passioni, delle sue aspirazioni). Ciò acquisisce addirittura tratti umoristici se si pensa allo stato americano in cui egli è nato e cresciuto. Quello stesso Texas che ha non solo dato i natali alla famiglia Bush ma che ha da sempre rappresentato il crogiuolo di un conservatorismo lontano anni luce dalla filosofia dell’uomo e dell’artista Anderson. Non è un caso allora se oggi Wes viene considerato il regista meno americano della sua generazione, perché è sempre fuggito da un mondo a cui probabilmente non appartiene, dal quale ha preso le distanze in passato (artisticamente parlando) senza mai sentire, per ora, l’esigenza o l’urgenza di tornare a raccontarlo. Ha dapprima mascherato l’America nella trilogia iniziale. Poi se ne è andato in India, in Francia, in Inghilterra. E’ venuto in Italia. E’ addirittura arrivato a creare mondi animati e immaginari. Tutto per correre dietro ad una ispirazione libera e vivace, frizzante e surreale, quasi mai radicata all’americanismo di tanti suoi colleghi coetanei (P. T. Anderson, T. Solondz, T. Haynes, A. Payne). Ciò è riscontrabile non solo nei luoghi ricercati ma anche negli spazi mostrati. Partendo dall’istituto Rushmore, passando per il “castello” della famiglia Tenenbaum, il sottomarino di Zissou, il treno Darjeeling, sino ad arrivare alle tane, i cunicoli, i nascondigli di Mr. Fox, gli spazi scelti da Anderson sono sempre stati volutamente anonimi e asettici. Luoghi/non luoghi esonerati dalla loro funzione naturale (cimiteri senza lacrime, piscine senza gioia, terrazze affollate) che non hanno mai avuto una identità precisa e identificabile se non quella fornita da chi quei posti era chiamato a viverli, occuparli e caratterizzarli. Stiamo parlando degli uomini di Anderson, la vasta schiera di attori a cui negli anni egli si è affidato per dare vita e anima ai personaggi bizzarri, stravaganti, indecifrabili dei suoi mondi colorati. Attori il più delle volte intesi come fratelli maggiori o minori. Come parenti prossimi. Indispensabili. Vicini ad un processo creativo stimolante, a cui essi hanno di volta in volta partecipato attivamente attraverso un ingegno e una immersione ben più profonda di quella richiesta dalla semplice interpretazione di un ruolo (molto spesso sceneggiatori insieme a Wes). Professionisti splendidi alcune volte rivalutati o semplicemente rinfrescati dal suo cinema (Bill Murray, Anjelica Huston, Gene Hackman, Seymour Cassell), altre volte valorizzati (Jeff Goldblum, William Dafoe, Natalie Portman, Adrien Brody, Cate Blanchett), altre ancora letteralmente scoperti e portati alla ribalta in nome di una amicizia solida e radicata nel tempo (Jason Schwartzmann, i tre fratelli Wilson e i tanti altri caratteristi). E’ possibile definire, quella che ruota attorno ad Anderson, come una vera e propria factory di warholiana memoria o, se vogliamo, come una famiglia allargata (comprendente anche tecnici e collaboratori storici come la costumista Milena Canonero, il compositore Mark Mothersbaugh, il cinematographer Robert Yeoman), alla stregua di quelle da lui portate sullo schermo e ostinatamente raccontate in ognuna delle pellicole sinora realizzate. In questo caso ci troviamo in presenza di una vera e propria ossessione andersoniana o, come qualcuno crede, di una debolezza mai svelata. Quella per il nucleo familiare inteso come istituzione in perenne stato di crisi e per le dinamiche impazzite che troppo spesso ruotano attorno a questo organismo sociale anomalo e talvolta mutevole. Anderson si diverte con i suoi film a scoperchiare i luoghi comuni sulla famiglia, ad oltrepassare i limiti inviolabili dell’intimità domestica per guardare, osservare, spiare e poi rimettere in scena con l’acidità, la freddezza e l’ironia tipica del suo stile drammaturgico. La banda di Bottle Rocket, la comunità della Rushmore, i naviganti-ricercatori che coadiuvano Steve Zissou rappresentano tutti simulacri di famiglie abbozzate, tentativi di legame ipotetici spinti da un desiderio di comunione primitivo. Sono nuclei corposi che intrecciano destini e percorsi, gruppi di individui che si incontrano, scontrano, ritrovano e amano alla stessa maniera delle vere famiglie. Quelle reali e concrete dei Tenenbaum, dei Fox e degli Whitman ad esempio. Rispetto alle quali, le precedenti, si differenziano per una assenza di consanguineità che di certo non interferisce con una composizione, uno squilibrio e una precarietà di fondo sostanzialmente medesimi nell’uno e nell’altro caso. Nell’atto della rappresentazione dei suoi microcosmi Anderson è solito costruire ragnatele fitte in cui trovano spazio emozioni contrastanti (tutte puntualmente riportate alla freddezza solita), dialoghi incomprensibili e scene bizzarre. Tutto nel rispetto di un nonsense surreale e talvolta ostentato. C’è anche spazio per elementi quali la riscoperta di sentimenti dimenticati (dai fratelli Whitman ad esempio), l’intesa solidale, la fratellanza e la solidarietà (i colpi da dilettanti dell’esordio); per pulsioni forti come la ribellione e il confronto (da qui le risse, le fughe, gli spostamenti), la distruzione e la ricostruzione (la rinascita dei rapporti). Il sostrato familiare di Anderson è perciò come un grosso tappeto su cui è possibile poggiare o posizionare a piacimento tutto ciò che si vuole. E’ uno sfondo dominante e a tratti ingombrante. E’ la chiave di volta di un metodo narrativo, di uno stile, di un tipo di cinema intero che da esso parte per scoprire l’essenza più pura dell’esistenza. Che sia quella di pupazzi in plastilina o di fantocci in carne ed ossa, non cambia poi molto ai fini di una messa in scena quasi sempre tesa all’illuminazione di un percorso tumultuoso di cambiamento ed evoluzione del singolo personaggio. In questi suoi vagabondaggi Anderson si affida, nel rispetto della sua stravaganza e della identità precisa che lo contraddistingue, ad una serie di tecniche particolarmente connotate sotto l’aspetto simbolico, evocativo e linguistico. Utilizza, ad esempio, raffinati stratagemmi drammaturgici che puntano alla nascita di una conflittualità concreta tra estremi emozionali: da una parte la tristezza, la depressione e la sofferenza e dall’altra la gioia, l’idillio e l’ironia. Tra l’impulso suicida di tanti suoi personaggi (reminescenza dell’Harold e Maude di Hal Ashby) e la comicità involontaria a loro concessa dal cinismo irriverente dell’autore. Su questo contrasto e sulla illogica fusione tra cinema di genere e cinema surreale si giocano tanti dei fronti aperti da Anderson. Da quello di Bottle Rocket, film d’azione inconsueto in cui convergono sentimenti di amicizia concreta, umorismo sottile e storie d’amore impossibili (una sorta di robbery movie vicino per certi tratti a Fantastic Mr. Fox), sino ad arrivare a The Darjeeling limited, un road movie fisico e soprattutto spirituale nell’India di Satyajit Ray (punto di riferimento di Wes) in cui eventi senza motivo si frappongono alla crescita individuale dei singoli protagonisti. E’ come se nella creazione delle proprie opere Anderson partisse sempre dalle stesse basi, rapporti familiari o interpersonali, scambi o scontri generazionali, scelta del genere di riferimento (melodramma, robbery ecc.), per poi costruire sopra di esse la leggiadra struttura dell’ironia, quella più vibrante delle emozioni, delle riflessioni e quella più effimera dei divertissement personali. E’ il caso, ad esempio, dell’apparizione “spontanea”, incomprensibile e ricorrente di piccoli elementi stranianti come i fuochi d’artificio, il susseguirsi di fratture, di nasi rotti, incerottati e di teste fasciate, di abiti improvvisati o incollati sui corpi dei personaggi come divise appariscenti ed esplicative, di ascensori che salgono e scendono senza soluzione di continuità. Tutti elementi estranei alla funzione filmica che, per questo motivo, riportano alla mente il ruolo e la medesima essenza dei più illustri kafka break coeniani. Ma le tecniche in un artista completo come Anderson vanno oltre la drammaturgia e non possono trascurare fattori come la narrazione e l’approccio visivo. Nel caso di Wes i fattori quasi si toccano perché gli unici interventi visibili sopra una narrazione quasi sempre classica e lineare, sono rappresentati dalla messa in scena vistosa e plateale delle tipiche frammentazioni cinematografiche. Anderson non si lascia quasi mai andare ad espedienti come il flashback, il flashforward, non concede spazio a sviluppi particolari e stravaganti del processo narrativo. A parte alcune piccole eccezioni come la sequenza dei fratelli Whitman diretti al funerale paterno (The Darjeeling limited) o il sogno ad occhi aperti di Max Fischer in apertura di Rushmore o la striscia di immagini dei giovani Tenenbaum montate in stile videoclip (a proposito di kafka break), egli preferisce per lo più domare lo scorrere del tempo delle sue storie attraverso bizzarrie formali che da una parte lo riportano alla classicità discorsiva di cui si parlava e dall’altra gli concedono di aprirsi la strada per una messa in scena vistosa, elegante e ricercata. Ecco quindi il motivo della famosa scansione mensile di tanti suoi film, la divisione in capitoli, la presenza scenica del sipario ad inaugurare ogni segmento di cinema andersoniano. Come se questo avesse il ruolo di introdurre lo spettatore nel mondo ipertrofico di Anderson, lo ponesse davanti al teatro colorato e saturo del suo cinema, lo esponesse d’improvviso al bombardamento sensoriale tipico di quelle sue immagini cariche di messaggi. Da capitolo a capitolo, il segmento tipico del nostro autore vive di movimenti sinuosi e magistrali, di magnifiche plongèe, di ralenty inseriti perfettamente nell’insieme, di carrellate laterali o a precedere talmente suggestive da rievocare i maestri più grandi della storia del cinema (Welles, Huston, Scorsese stesso), di inquadrature d’insieme che racchiudono “in front of” oggetti, volti e traiettorie alla stregua del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo. I quadri di Anderson esplodono nella loro colorazione estrema, nell’accostamento di tonalità affini, nella calibrata costruzione di un senso del gusto unico. In questo Anderson è tanto elegante quanto uno stilista artigiano, quanto quell’artista completo capace di dominare lo spazio qualunque sia la forma d’arte con cui è chiamato a farlo. A questo punto un interrogativo sempre più pressante sorge spontaneo. Quale può essere ormai la discriminazione che rende il lavoro del pittore più elevato di quello di un regista capace di inquadrare e includere porzioni di mondo all’interno di contorni ben più effimeri e variabili di quelli di una tela? L’emozione suscitata da un quadro d’insieme tipico del regista di Houston, arricchito con i colori sgargianti, con l’arredamento cool dei suoi interni, con l’oggettistica vintage di un profilmico curato sino all’ossessione e con l’aggiunta magari del primo piano dormiente di un Bill Murray d’annata (forse il volto emblematico del cinema surreale andersoniano), non è forse qualcosa di raro e unico quanto qualsiasi altra fruizione artistica? E’ forse allora utile e doveroso ormai, rileggere una volta per tutte e in maniera accurata la consistenza di un’opera sempre più matura e completa. E’ giusto dare seguito alle parole di Scorsese e spingere definitivamente, a dieci anni di distanza, un tipo di cinema da più parti definito unico ed emozionante. Un’esperienza che lascia il segno nella mente del cinefilo o nell’anima del fruitore casuale, al pari di una tela di Van Gogh (con il quale si può azzardare un accostamento nell’uso del colore), di una inquadratura di Kubrick (uno dei tanti punti di riferimento cinematografici di Anderson) o di una canzone di Bob Dylan, simbolo di un tipo di musicalità, insieme leggera e sovversiva, particolarmente apprezzata da Anderson e ricercata dallo stesso nella definizione di quelle che sono tra le migliori colonne sonore del cinema contemporaneo. Piccoli gioielli interni ai film che contrappuntano le immagini forti di quel suo cinema con le immortali note di David Bowie, dei Kinks, di Elliott Smith, di Cat Stevens, di Nico, dei Velvet Underground, degli Who, dei Faces e delle tante altre passioni musicali del regista statunitense.


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