FESTIVAL U.T.E. - Mario Martone

TEATRO INDIA - EDIPO A COLONO di Paolo Sanvito
Con un fulminante cambio di set poco dopo l’inizio dello spettacolo Mario Martone trasporta gli spettatori del suo “Edipo a Colono” dal cortile esterno del Teatro India ad una delle sale interne, la principale e più vasta del complesso. Con insistenza deliberata gli spettatori sono davvero portati con urgenza dai cittadini di Colono, via dai loro sedili, - e questo accorgimento drammaturgico della migrazione si ripete più volte nel corso dello spettacolo - ricevendo la decisa sensazione di essere sul serio “condotti dentro la Città”, nella città santa di Colono. Una scenografia da Arte Povera rafforza questo effetto (e ci scusi Mimmo Paladino, appartenente a tutt’altra corrente pittorica, per l’accostamento incongruo, determinato solo dall’impressione immediata): da area postindustriale che era, l’”aia” si trasforma grazie a lui in una plaga della Grecia antecedente ad ogni era e computo di tempo, un’epoca primigenia in cui ogni sbavatura di gesso su un tronco può essere parola di Sibilla, ogni maschera muta un segno dei progenitori che ci si manifesta. In questo scenario ruvido, che ha il potere per la sua severità e ascesi di immergere nella contemplazione filosofica, balena il concetto di “Atene”, simbolo della civilizzazione: la città della quale si dichiara ufficialmente che sia “democrazia”, esattamente come lo dichiara di se stessa la nostra società. Nulla sembra essere cambiato nelle teste degli uomini dal V secolo ad oggi, il dibattito sulla libertà, sulla giustizia e sul diritto venne allora aperto, e tuttora aperto resta (lo sfondo del genocidio perpetrato in Iraq e altrove, in nome di ciò che si definisce civile, traspare dietro le parole udite sulla scena). E, sempre su questo scenario, compare un Edipo lacero come un barbone, o come sarebbe oggi un “immigrato”: tecnicamente, per gli Antichi ciò che si diceva più decorosamente un “esule”. Per i suoi tratti fisiognomici è equivalente più che ad un uomo vivo, ad un teschio, ricorda il macabro, scheletrico Pulcinella interpretato da Peppe Barra nei primi spettacoli della N.C.C.P. a Napoli. Nella seconda scena dunque, nella quale ci troviamo seduti nella sala interna, l’interpretazione dei canti rituali della cittadina di Colono (Maria Grazia Mandruzzato) è gioioso, potente, anzi dirompente come la celebrazione della prima festa della creazione del mondo. E’ il primo contatto con la città e dei riti di abluzione, tuttavia sempre con grande severità, vengono compiuti. Lo stile della regia è inevitabilmente violento, inteso a farci presente l’asprezza della condizione umana che si batte tra l’oscurantismo, sempre riemergente, della barbarie delle origini dell’uomo, e la tensione agli ideali dell’umanesimo. La scelta registica è quindi di porre i protagonisti, ogni volta prima del loro monologo, al centro di un interrogatorio, avendo come sottotesto necessariamente il carcere, gli istituti di coercizione. La luce si accende accecante sugli occhi degli interrogati, chiusi in un quadrato ideale illuminato al centro della scena, dal quale saranno (forse) liberati solo in ultimo. Perfino manca in parte la proverbiale dolcezza caratteristica alla figlia Ismene, figura nota alla tradizione in contrapposizione alla volitività a volte aggressiva di Antigone. Il suo incontro con il padre non è un abbraccio completo, il pubblico viene lasciato in sospensione, in attesa di un gesto dovuto di affetto, tra il dare e il trattenere -uno dei momenti più raffinati tra le proposte attoriali di questo spettacolo, in cui i caratteri e le doti titaniche di toni Bertorelli (Edipo) e di Elena Bucci e Moira Grassi (le figlie) danno il meglio di sé. In un momento successivo, durante il dialogo tra Antigone e Polinice, ha luogo sotto i nostri occhi un’ulteriore cesura nello stile performativo: la sorella (E. Bucci) improvvisamente intuisce, mentre abbraccia il fratello, che sta parlando con un cadavere vivente, che questi momenti sono ancora lontani dalla sua morte, ma anche gli ultimi concessi di vera intimità con lui. “Edipo a Colono” è tuttavia, oltre che opera di spessore politico e filosofico, anche un dramma delle psicosi delle relazioni, intrinseche alle strutture parentali. Non solo l’arduo rapporto del padre con la prole, ma anche il dispiegamento delle strategie di saccheggio o dominio delle esistenze altrui all’interno del rapporto di parentela è delucidato esemplarmente dall’interpretazione dal dialogo tra Edipo e Creonte: dimentichiamo ormai, davanti a loro, che si tratta di un mito greco. Chi abbiamo davanti sono dei familiari, con tutte le loro pulsioni, tanto più orride nella loro ripugnante - ma ineludibile - inconfessabilità. In questo dialogo, ogni volta di nuovo, Edipo si rivela homo sacer, quello che tocca si trasforma, guarisce, cambia, oppure anche viene addirittura piagato, e coerentemente reagisce al suo contatto Creonte a volte con terrore, a volte con orrore, a volte con intesa. Ma tra le idee fondamentali a fare da leitmotiv di questo brano teatrale è quella della ricerca del significato della giustizia umana. Continuamente i dialoghi dei personaggi ritornano a indagare intorno al concetto della giustizia e a quelli affini: in un mondo destinato (nel Mediterraneo antico come nell’Europa moderna) al miscuglio di culture vicendevolmente estranee, quale gruppo sociale e/o etnico è debitore di che cosa a quale altro? Che cosa gli deve, o ne può pretendere? Il tema della responsabilità collettiva di un gruppo umano (il popolo di Atene nella fattispecie, ma anche qualunque popolo che sia solo un po’ devoto al dio dei viandanti e dei profughi, oggi non ancora morto) è centrale in tutti i complessi discorsi di Teseo. Il popolo degli Ateniesi, relegato necessariamente dalla drammaturgia a coro, e perciò a volte fissi come maschere teatrali venute dall’Antico, guardano l’azione unificati a noi, loro pubblico (e infatti siedono in mezzo a noi). La Mafia e il crimine possono distruggere tutto ciò che può solo esservi di sacro nel popolo, negli individui e nelle nazioni: dimostra questo testo, in modo così patente che non c’è bisogno di interpretare. L’acqua della fonte sacra posta al centro della scena viene riempita di sangue dall’incursione dei Tebani, le sacre ceramiche frantumate in mille pezzi, e all’uomo non può restare più spazio per con-templare, il verbo che definisce, oltre all’azione dei filosofi, anche lo spazio più prezioso che vivere al mondo consente di ritagliare, il templum. In un ulteriore, ed ultimo tempio verremo ancora trasportati dal coro all’ultimo, quando Edipo muore, ma è l’ultimo momento di contatto con la dimensione più alta, sacra appunto, perché subito dopo i cittadini devono prepararsi ad una guerra, che, - in questo spettacolo sembra di sentire citata la celebre frase di Nietzsche, “E’ il letargo di ogni cultura” (ist der Winterschlaf der Kultur). [ottobre 2005]
regia: mario martone costumi: Loredana Putignani luci: Pasquale Mari attori: Toni Bertorelli, Elena Bucci, Monica Piseddu, Andrea Renzi, Gianfranco Varetto, Valerio Binasco. Il Coro: Giovanni Calcagno, Davide Compagnone, Francesca Cutolo, Daria Deflorian, Raffaele Di Florio, Roberto Latini, Giovanni Ludeno, Maria Grazia Mandruzzato, Maria Teresa Martuscelli, Gianfranco Quero, Mario Raffaele
•IL TEATRO DI TRIONFO •L’IVANOV DIVISO DI NEKROSIUS •LE NUOVE AVVENTURE DI PINOCCHIO •DA STANISLAVSKIJ A... BRANDO •TRE SORELLE •INFINITIES •EINSTEIN FOR ALIENS •LA LEZIONE SHAKESPEARIANA DI BROOK •RE LEAR OVVERO “ TUTTO SU MIO PADRE”
