Fiction italia – La primavera di SkRaiSet. Stili e tendenze della fiction Rai, Mediaset e Sky.

Il licenziamento di Cristiano Bortone dal set di Moana, fiction sulla regina dell’hard prodotta da Sky Cinema, riporta alla ribalta l’annoso contrasto tra le ragioni economiche del produttore e quelle artistiche dell’autore. Anzi, a voler essere ottimisti a tutti i costi, si potrebbe quasi dire che tale scontro sia conseguenza diretta della maturità raggiunta dalla televisione, come era capitato a suo tempo al glorioso cinema hollywoodiano degli Studios.
Ma senza lavorare di fantasia, favoleggiando per le fiction le liti furiose stile Il bruto e la bella – forse la pellicola più bella realizzata sulla figura del produttore/demiurgo – e senza immaginare reincarnazioni di David O’Selznick nei dirigenti Sky, il problema che si profila nell’oggi a proposito della fiction italiana riguarda, per le maestranze e i produttori, la strada da percorrere, uno stile da trovare; analogamente, il telespettatore deve imparare a orientarsi tra quelli che sono ormai, di fatto, i tre poli televisivi anche nel settore della fiction: Rai – e Raicinema – Mediaset – con la Taodue, Mediavivere ecc. – e, infine, Sky – con Skycinema e Fox Italia.
Ogni gruppo, e la sua relativa casa di produzione, è, infatti, portatore di determinati valori, esperienze, necessità che muovono verso precisi target di pubblico e obiettivi creativi.
Quando Cristiano Bortone, recriminando sul suo repentino allontanamento dal set di un progetto peraltro da lui stesso ideato, accusa i vertici Sky di pensare «che i film debbano avere tutti lo stesso stile, tutti sul modello di Romanzo criminale» dice una grande verità.
Per la nostra rubrica abbiamo seguito, infatti, tutte le sperimentazioni e le strade battute dal canale digitale per imporsi nel campo della fiction e competere con le reti ammiraglie della tv generalista nella produzione e messa in onda di quella che va ormai considerata la nuova gallina dalle uova d’oro dei palinsesti (oltre ai reality e ai talent show che hanno seppellito il varietà).
Romanzo criminale è davvero diventato il modello cui paragonare tutti gli altri prodotti di fiction del satellite – non nei suoi contenuti, ovviamente – ma di certo per qualità artistica, innovazione, e ottimizzazione degli investimenti. Dopo tante peregrinazioni alla ricerca di una impronta personale e originale che rendesse la fiction Sky immediatamente riconoscibile per il pubblico, dopo esiti incerti come quelli di Quo Vadis Baby? e altro, la miniserie firmata da Stefano Sollima è stata salutata dagli spettatori e dalla critica come la nascita di una nuova pagina della televisione italiana ed era scontato che un simile risultato avrebbe dettato nuovi standard per le future produzioni di Sky.
Questo discorso esula naturalmente dal caso di Moana – che ha visto Bortone penalizzato professionalmente e umanamente senza che la rete sia intervenuta pubblicamente per fornire delle spiegazioni in proposito (l’ufficio stampa non ha risposto neanche alle nostre domande al riguardo – ma proprio le parole del regista hanno sollecitato in noi una riflessione, o quantomeno la necessità di fare un punto della situazione, sulle finalità della fiction in base al network che la commissiona e la manda in onda.
Se dunque Sky pare aver trovato in Romanzo criminale il proprio riferimento – ma siamo sicuri che per ripetere certi fasti sarà giusto avvalersi di un regista ‘convenzionale’ come Peyretti (del pessimo Gente di mare)? – nelle ultime settimane, la primavera televisiva è stata costellata di prime serate in cui Rai e Mediaset si sono date battaglia ognuna nel campo che più gli è confacente: David Copperfield ed Enrico Mattei-L’uomo che guardava al futuro per la prima, So che ritornerai e Piper per la seconda.
Da una parte la fiction didattica, che pesca dalla letteratura moderna e dalla storia contemporanea, dall’altra la fiction di genere e di costume, che vive di memorie cinematografiche e immaginario pop. Del resto, la diversificazione tra pubblico e privato in qualcosa deve pur manifestarsi. E se i talk show, i talent, i reality – la tv ‘dal vivo’ – si scimmiottano sempre più simili tra i salotti delle rispettive emittenti, le fiction sono invece una programmatica dichiarazione d’intenti che enuncia a chiare lettere le finalità delle diverse reti.
Mediaset parla a un pubblico giovanile, persino adolescenziale se si tiene conto di prodotti come I liceali o di quella sorta di docu-fiction che è ormai Amici di Maria De Filippi; così punta su autori dinamici, a proprio agio nei generi, dallo stile adrenalinico, come Eros Puglielli – autore di 48 ore e Zodiaco, quest’ultima per Raidue, la rete giovanile della Rai, non a caso competitor di Italia1 – cui ha affidato So che ritornerai, leggero thriller dalle reminiscenze argentiano/hitchockiane .
Infatti, il tv movie interpretato da Manuela Arcuri - tanto statuaria quanto inespressiva - e "nobilitato" dalla presenza di una Valeria Milillo in ascesa e dal cammeo di lusso di Giancarlo Giannini, non aspira ad altro che a un onesto intrattenimento serale, ma riesce tutto sommato a creare un discreto mélange tra figure e temi argentiani (il killer mascherato con impermeabile e guanti di pelle) e suggestioni stilistiche alla Hitchcock: in primis la musica, che richiama il Bernard Herrmann di Vertigo, poi nelle inquadrature, aggiornate però ai tempi: il carrello in avanti sulla chiave di Notorious è citato in un analogo movimento che ha come oggetto del desiderio un cellulare.
L’operazione di Piper, miniserie di cui è stata trasmessa solo la prima puntata, arriva invece a due anni di distanza dall’omonimo film tv diretto da Carlo Vanzina (con una Martina Stella simil Patty Pravo) e si propone di rinnovare il ciclo ‘vintage’ realizzato dallo stesso regista col dittico Anni ’50 –Anni ’60, in cui Vanzina metteva a servizio della televisione l’esperienza frutto di tante pellicole nostalgiche sugli anni del boom.
La Rai punta invece sul progetto didattico ed educativo, mettendo al centro dei suoi intrecci figure edificanti, da emulare, a uso delle nuove generazioni. È ormai chiaro come lo zuccherino da associare all’amara pillola della cultura sia una chiave di lettura volta ad attualizzare – a volte in modo del tutto infelice, come in Caravaggio – personaggi e situazioni.
Ecco che allora nella prima parte di David Copperfield – quella meglio riuscita, incentrata sulle paure ancestrali dell’infanzia, in cui Stefano Dionisi si cala mirabilmente nei panni del cattivissimo patrigno – nelle disavventure familiari del piccolo David rivivono i traumi dei bambini contemporanei, in mezzo a separazioni e divorzi spesso spiacevoli e a contatto, sempre più frequentemente, con nuclei familiari particolari, ristretti o allargati, che mettono presto fine alla spensieratezza per lasciar irrompere la vita nei suoi aspetti più complessi e amari, così come avveniva ai piccoli protagonisti dei romanzi di formazione dickensiani, di cui la fiction diretta da Ambrogio Lo Giudice conserva in parte quel groviglio di atmosfere tra il melodrammatico e l’orrorifico.
A un’attualizzazione tutto sommato convincente fa però seguito un’altra piuttosto forzata: infatti, nella seconda parte, il David cresciuto, deciso a farsi strada nella vita diventa una sorta di modello comportamentale da proporre ai “bamboccioni” intenti al bivacco televisivo sul divano di mamma e papà e la buona confezione fin qui realizzata viene piegata (e rovinata) – eccetto i momenti assegnati al sorprendente villain Gian Marco Tognazzi e allo svagato Patrizio Roversi – ai fini del solito monito moralista cui la Rai raramente sfugge.
Anche Enrico Mattei ne è in parte vittima. “L’uomo che guardava al futuro” interpretato da Massimo Ghini – che replica pari pari il capofamiglia Ferrucci di Raccontami – è un personaggio scritto appositamente per incarnare i requisiti del manager ideale alla luce della crisi attuale. Un industriale che investe sui giovani, ma, occhio, solo sui più meritevoli: «Se falliscono…a casa!» dice Ghini/Mattei ai suoi collaboratori. Ne viene fuori un personaggio “sordiano”, simpatico malandrino capace di tirare fuori un immenso coraggio italico, che lascia rimpiangere l’imprescindibile film di Rosi.
A prescindere dai risultati delle singole opere – in questa stagione ogni emittente ha avuto i suoi cavalli di razza, tra il biopic Rai su Di Vittorio interpretato dal sempre eccelso Pierfrancesco Favino e i meccanismi di suspense ormai perfetti di Squadra Antimafia-Palermo Oggi – il quadro che emerge dallo “zapping” concettuale appena effettuato è quello di una perfetta spartizione di aree, territori e competenze. Che allora i registi interessati ai progetti televisivi ascoltino ciò che è più vicino alle loro corde per andare "là dove li porta il cuore", possibilmente lontano da licenziamenti a ciel sereno.
