Fiction Italia - Moana

È una battuta d’arresto nell’avanguardistica produzione di Sky quella della fiction Moana. Ci duole dirlo, dopo tante aspettative, ma la miniserie in due puntate diretta da Alfredo Peyretti e con Violante Placido nel ruolo della celebre diva del porno è al di sotto degli standard qualitativi cui ci avevano abituati l’eccelso Romanzo criminale di Sollima, la cronaca nera del recente Il mostro di Firenze o della serie Donne assassine, firmata da Alex Infascelli, Francesco Patierno ed Herbert Simone Paragnani (girati però per Fox Crime), ma anche prodotti meno riusciti come Quo Vadis Baby? e Nel nome del male che, pur presentando delle falle nell’impianto drammaturgico – poco avvincente il primo una volta privato della storia personale che muoveva la detective nel film, e moralmente ambiguo il secondo nel far combaciare l’eutanasia di malati terminali con gli assassinii perpetrati da una setta satanica – dimostravano, se non altro, una ricerca sul piano stilistico.
La Moana di Peyretti vorrebbe essere, come ha dichiarato l’autore, un’opera rock ‘n roll, finendo invece col risultare piuttosto lenta.
Eppure non parte male, con un montaggio parallelo che avvicina la donna perduta alla ragazzina inconsapevolmente provocante, che esprime un eros del tutto naturale, represso da una cultura bigotta.
È un incipit forte, visivamente brillante, la cui potenza va pian piano perdendosi nel prosieguo della vicenda, quando le suggestioni concettuali cessano di essere risolte nell’immagine per abbandonarsi alla placida successione di blocchi narrativi tipica del biopic più tradizionale.
Solo più avanti Peyretti ci regala un’altra intuizione, forse l’immagine più pregnante del suo lavoro: quella di una Moana che sul set non guarda i suoi partner, provando un piacere non sessuale ma voyeuristico specchiandosi nella lente dell’obiettivo, e rivendicando così, con uno sguardo carico di malizia e allo stesso tempo di stupore infantile, la sua fisicità prorompente, il narcisismo scaturito dal piacere del suo stesso riflesso. Ma sono soltanto brevi flash, che lasciano con l’amarezza di trovarsi di fronte a un prodotto monco, che avrebbe potuto avere ben altro peso nella storia della fiction italiana.
Gli anni Ottanta di Moana avrebbero davvero potuto essere il tassello finale per una storia nera, violenta e torbida del nostro paese, avviata già con Romanzo Criminale e proseguita con Il mostro di Firenze.
L’attualità del soggetto non è neanche da ribadire: il legame tra sesso mercificato e potere è sotto i riflettori oggi come al tempo. E allora perché questo enorme potenziale è andato sprecato così, in una sorta di soap-opera poco erotica e, soprattutto, decisamente poco rivoluzionaria?
Moana appare una fiction statica, costruita su brevi quadretti che ripercorrono l’iniziazione della giovane ligure nella tentacolare città del cinema, con tanto di provini imbarazzanti e i suoi primi, timidi, passi nel mondo del cinema hard; l’incontro col pigmalione Riccardo Schicchi, interpretato dal lanciatissimo Fausto Paravidino: figura a dir poco emblematica del decennio, risolta però come simpatica macchietta, folletto maligno diviso tra gli strozzini di periferia e i tribunali dove sconta il suo progetto ’artistico’.
E, ancora, la successiva consacrazione a diva del porno con gelosie e invidie da parte della collega Ilona Staller in arte Cicciolina (una convincente Giorgia Wurth); e infine il suo desiderio di ribellione, che la porta ad allontanarsi dalla ‘factory’ schicchiana per andare incontro al mondo della televisione, che prima le volta le spalle e poi la consacrerà, e della politica, entrando nella camera da letto di Bettino Craxi e, in seguito, nelle tribune elettorali con l’esperienza fallimentare del Partito dell’Amore.
Eppure questa ascesa, questa parabola esistenziale così incredibile, stranger than fiction è il caso di dire, viene più detta, raccontata – tramite dialoghi esplicativi oltre il limite del didascalico (“stiamo facendo una rivoluzione dei costumi sessuali”, ripete sempre Schicchi/Paravidino) – che non suggerita attraverso un più originale lavoro sull’immagine e sul montaggio.
L’attenuante sta forse in una lavorazione travagliata, che ha visto l’allontanamento dal set di Cristiano Bortone, ideatore del progetto (che resta nei credits come autore del soggetto e supervisore artistico) e l’entrata in corsa di Peyretti, cui è stato sostanzialmente chiesto di dare ritmo a una vicenda pensata in chiave del tutto intimista, persino con l’ausilio di immagini di repertorio. E le canzoni punk scelte dal regista non bastano a smuovere le acque e a rendere visionario un prodotto concepito con tutt’altre finalità.
Moana resta così nel guado, perde l’ottica privata e sensibile immaginata da Bortone, senza però acquisire le necessarie accelerazioni per essere tramutata in un’opera tutta sesso, droga e rock ‘n roll. La seconda in realtà manca del tutto – e perdonateci se ci sembra improbabile in un contesto come l’industria del porno degli anni Ottanta per giunta – il rock si limita a far da sottofondo a qualche scena più ritmata, mentre il sesso, che dovrebbe essere il perno di una simile operazione, è ridotto al minimo indispensabile, e sui set pornografici si lavora tenendo addosso il body di pizzo (!).
Senza reclamare una fiction porno sul tema, ci basta andare con la memoria al magnifico affresco del Boogie Nights di P.T. Anderson, che senza falsi pudori e reticenze cantò l’industria dell’hard americano degli anni Settanta, raccontandone splendori e miserie, la rivoluzione contro il puritanesimo ma anche il rapido declino morale fatto di droga e vite distrutte.
Moana avrebbe potuto essere questo o anche, al contrario, un inno alla sessualità più sfrontata, moralmente superiore alla mercificazione del corpo femminile oggi in atto. Come a dire che le casalinghe che venti anni fa speronavano la partecipazione della scandalosa pornodiva ai programmi della Rai oggi spingono le figlie sui banconi delle tv nazionali, a sculettare seminude.
Per queste importanti carenze la fiction di Peyretti segna un passo indietro nella produzione seriale di Sky (Moana è prodotta da Polivideo ma in base alle prerogative del network televisivo).
È un duro colpo mancare un bersaglio tanto ghiotto, annegando in una ‘mezza misura’ un materiale così incandescente; e affidando un personaggio ricco di sfaccettature come quello della Pozzi, sfuggente, rimasto nell’immaginario collettivo proprio per l’estrema eleganza che la rendeva una donna di classe anche in contesti turpi, a un’attrice che pur mostrando grande volontà non riesce a convincere.
Nella donna interpretata da Violante Placido non c’è traccia del grande autocontrollo, dell’estrema consapevolezza che si evinceva negli sguardi di Moana Pozzi. La sua è piuttosto una sorta di Marilyn, bambolina bionda dall’aria svagata, eternamente preda dei lupi cattivi, incline a momenti di malinconia, vittima di una fisicità esagerata (e che alla pur bella Violante manca).
E l’indimenticata Moana Pozzi continua a rimanere un affascinante e vagamente torbido mistero italiano.
