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Fiction Italia - Non pensarci

Pubblicato il 27 maggio 2009 da Fabiana Proietti


Fiction Italia - Non pensarci

È curioso notare come tra la crisi dell’istituzione familiare – difesa strenuamente da una certa parte parte politica e dalla Chiesa come fosse il panda del Wwf – e la sua rappresentazione nel panorama televisivo ci sia stato finora un sostanziale scollamento.
Perché le fiction nostrane più vicine alle forme del family drama americano (pensiamo a quelle che hanno riscosso più successo di pubblico) come I Cesaroni di Canale 5 e il suo diretto concorrente Tutti pazzi per amore, di Raiuno, nonostante mostrino nuclei familiari allargati, joint-venture di famiglie monogenitoriali che si uniscono portando in dote figli, spesso adolescenti, che – caso strano – si innamorano a loro volta, portando con nonchalance in prima serata un quasi incesto, sono tuttavia permeate di una zuccherosa atmosfera scacciapensieri che ne limita ampiamente il discorso sociologico (figuriamoci quello politico).

Ma nella realtà, quella del Family Day da una parte e delle lotte per i diritti delle coppie di fatto dall’altra, è chiaro che le cose stanno diversamente. E allora come può o dovrebbe essere oggi una fiction tutta italiana che racconti la famiglia, in tutte le sue contraddizioni, in tutti i suoi anacronismi, ma anche nei valori che alla fine ne fanno la prima cellula sociale?
La risposta di Fox è Non Pensarci, serie tratta dall’omonimo, piccolo e sorprendente film di Gianni Zanasi, che due stagioni fa illuminò, da assoluto outsider, un festival di Venezia forse mai così deludente per la cinematografia italiana (prima della rivalutazione cannense con Gomorra e Il Divo).

Il film di Zanasi aveva il passo del miglior cinema indipendente, scanzonato come il suo interprete-protagonista, un Valerio Mastandrea cui i panni di Stefano Nardini, chitarrista in crisi, calzano davvero alla perfezione; ma anche, o forse soprattutto, in comprimari straordinari come Giuseppe Battiston e Anita Caprioli: la rockstar in crisi d’identità, il capofamiglia responsabile che ha accidentalmente fatto fallire l’azienda di famiglia, la giovane ambientalista e animalista che rinuncia a metter su famiglia per curare i delfini del parco acquatico. Tre percorsi di vita e personalità difficilmente assimilabili se non per il fatto di essere fratelli, di avere in comune una madre, un padre e… una fabbrica di ciliegie sotto spirito.
La grazia della pellicola era proprio in quel suo girare a vuoto, nel suo essere priva di un vero finale – se non l’intervento deus ex machina del padre (Teco Celi) che rimetteva al posto il caos creato dai suoi “bambini” – in grado di riflettere la confusione e l’inconcludenza di una generazione fuori-fase.

La serie prodotta da Fox - scritta e diretta sempre da Gianni Zanasi (con la collaborazione di Lucio Pellegrini (E allora Mambo) - è interessante già a livello produttivo, in quanto primo prodotto realizzato da Sky a partire da un film indipendente, a basso budget, la cui realizzazione è affidata allo stesso team della pellicola, diversamente dall’esperienza di Salvatores e Placido che, pur sovrintendo ai progetti, non hanno firmato le serie tratte o ispirate ai propri, rispettivi film (Quo Vadis Baby? e Romanzo criminale).
Il progetto seriale vanta, però, anche delle originali soluzioni stilistiche e narrative. Non riparte lì dove la pellicola si interrompeva; non è un sequel né tanto meno uno spin-off. Si propone invece – ed è per questo che risulta più interessante ai fini della nostra analisi – come una modalità altra di raccontare la medesima vicenda, uno stesso canovaccio in cui è l’estensione della dimensione seriale a determinare i cambiamenti rispetto ai tempi e ai modi del racconto cinematografico.
Se lì infatti era la sintesi a regnare, la serie attua una strategia analoga – scegliendo la durata standard della sitcom (25’) a quella dei serial narrativamente più complessi (50’).

Questa struttura “in pillole”, spalmata nell’arco di 12 episodi, anziché nelle due ore circa della pellicola, dà modo di approfondire ulteriormente la tecnica del racconto persketch già adottata dal film, offrendo gustosi episodi naif e surreali, che si rivelano sorprendentemente adatti per raccontare la frammentazione tanto del singolo individuo quanto dell’istituzione-famiglia, e la perdita di coesione all’interno della struttura narrativa diviene speculare al disgregamento dell’unità familiare, i cui membri vivono microstorie sovrapponibili ma difficilmente connesse.
Il legame tra i tre fratelli Nardini e i loro svagati genitori – assorbiti dalle vie di fuga alto borghesi alla quotidianità, golf per il padre, meditazioni orientali per la madre – è dato da un unico elemento: la crisi.
La precipitazione dallo status benestante al pignoramento dei beni, seppur trattata in chiave comico-surreale – ed è un tipo di comicità lieve, che vola più alto del solito trivio cui ci ha abituati negli anni la maggior parte del cinema e della tv nostrani – è l’incursione del mondo reale in questo racconto non sense, l’elemento che fa della serie un’interprete di questi anni così confusi, pieni di smarrimento e paure, in cui gli equilibri si spezzano ed emergono le fragilità di ognuno. Perché le gag che pure costituiscono l’anima di ogni puntata sono schegge amare rivelatrici di un mondo che non è proprio "il migliore dei mondi possibili".

Così il medico menefreghista «Ora scusate, vado a salvare una vita…la mia!!», la vecchia signora che pretende sull’autobus il posto che più le aggrada (in un mare di posti liberi) «Mi deve dare il posto…io sono anziana!» o il caricaturale (ma lo è poi tanto?) direttore di banca interpretato da Paolo Sassanelli, che fa jogging con segretaria e bodyguard al seguito, e porta il figlio a cercare con il metal detector collanine e anelli persi dai turisti in spiaggia - «Così guadagnai il mio primo milione», gli insegna – oltre a sequenze più apertamente ludiche e spassose come il trip da acido che guida il ritorno di Mastandrea a Rimini, sono flash illuminanti su una realtà squallida, imperniata su una vocazione alla produzione e al consumo – la metafora della fabbrica in declino ne è una metafora sufficientemente chiara – che finiscono col rendere infelici.
Rispetto ai protagonisti canterini del sopravvalutato Tutti pazzi per amore, e alla famiglia "anema e core" de I Cesaroni, ci sembra che i Nardini, con tutti i loro difetti e le loro stranezze - che strizzano l’occhio ai talentuosi e incompresi membri fratelli dei Royal Tenenmbaum di Wes Anderson, nei confronti del quale la serie Non pensarci mostra diversi debiti - raccontino molto meglio e con più sincerità questi tempi così bislacchi.


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