Fiction Italia - Remaking Rebecca

Perché rifare Rebecca, oggi e in televisione? Da un certo punto di vista l’impresa di Riccardo Milani (premiata dal pubblico con il 30, 67% di share) è rischiosa, coraggiosa, persino temeraria visto il gigante da cui attinge per l’apparato visivo del suo lavoro, mentre la storia ricalca più da vicino il romanzo di Daphne Du Maurier, senza le ellissi e le omissioni della celebre trasposizione cinematografica.
Rebecca la prima moglie di Hitchcock era insieme mélo, romanzo di formazione e thriller psicologico, con deliziosi tocchi da commedia nella prima parte, a dilatare l’attesa - Hitch oltre che geniale metteur en scène, era anche, o forse soprattutto, un esperto dei tempi narrativi - prima di risucchiare il suo spettatore nel delirio della governante, Miss Danvers, e nell’incubo della giovane eroina.
Il suo baricentro narrativo stava proprio nel progressivo, insinuante e logorante mutamento del sogno da fiaba, con il matrimonio e il castello, in opprimente angoscia e frustrazione di una Cenerentola che non smetteva mai di essere serva pur con il titolo di Principessa.
E poi largo alle danze, con la messa in scena ricca di contrasti luministici, di inquadrature supine che chiarivano immediatamente la sudditanza della giovane Signora De Winter nei confronti di questa misteriosa donna in nero, subalterna nel ruolo sociale eppure catalizzatrice di tutto il terrore della protagonista nei confronti di un passato opprimente e inarginabile, inscritto in una sola lettera: R (dopo la M del mostro di Dusseldorf, probabilmente l’iniziale più inquietante della storia del cinema).
Ecco dunque una sequela di motivi per non accostarsi nemmeno al romanzo della Du Maurier - l’autrice più ‘hitchcockiana’ insieme a Cornell Woolrich, da cui il maestro del brivido trasse anche Gli uccelli - né dare il via a una nuova produzione tutta italiana.
Eppure non è completa débacle: Milani e collaboratori ottengono buoni risultati nell’ambientazione, trovando nella brumosa Trieste una villa che potrebbe davvero essere Manderley, tenuta isolata e avvolta nella nebbia, prossima a una scogliera che sembra attrarre in più di un’occasione i personaggi verso una morte vista come pacificazione di ogni travaglio esistenziale.
Il frequente richiamo all’altezza e al vuoto, presente oltre che nel promontorio a strapiombo sul mare anche nelle inquadrature di solaio e scala, visualizza felicemente lo stato mentale delle due protagoniste, in preda a una vertigine continua (altro riferimento al cinema hitchcockiano?) l’una, persa follemente nella cristallizzazione di un tempo passato (come accadeva anche in Psyco e Vertigo), l’altra che in quel vortice viene risucchiata dalle pressioni psicologiche della sua antagonista.
E vista in questa prospettiva, ma probabilmente senza averne l’intenzione, la Rebecca di Milani riesce davvero a intuire alcune ossessioni hitchcockiane, alcuni motivi fondanti del suo cinema e a essere pertanto un remake non della singola pellicola ma dell’opera intera del cineasta, non troppo diversamente dall’operazione più dichiarata di Dario Argento con Ti piace Hitchcock?, dove il regista romano ricreava e mescolava situazioni tipiche del cinema del maestro inglese.
A parte questo, ovviamente, il risultato estetico non è esaltante, dalla recitazione troppo stereotipata e granitica degli interpreti, compresa, ci duole dirlo, Mariangela Melato che dà sì vita a un personaggio terrificante, facendo sua la connotazione hitchockiana di Miss Danvers: “non si doveva vederla muoversi, spostarsi da un luogo all’altro. Doveva apparire come se fosse stata sempre lì” ma che dopo un’efficace apparizione iniziale perde molta forza. Dei poveri Boni e Capotondi, costretti a fronteggiarsi (per quanto si possa inutilmente dire che ogni confronto va evitato: ma è realmente possibile?) con Lawrence Olivier e Joan Fontaine è forse meglio tacere, così come dell’annacquarsi della tensione in un racconto che avrebbe dovuto essere più coeso e non diluito in oltre tre ore di narrazione.
Ma fatta eccezione per certe ingenuità - probabilmente a Rebecca avrebbe giovato di più un casting di sconosciuti ‘di valore’ e non dei volti noti del momento che passano di fiction in fiction - è interessante notare un primo accenno di qualità nella confezione del prodotto e di furbizia nello scegliere una materia di sicuro fascino ma non complessa (come era invece raccontare Caravaggio) e sperimentare al tempo stesso, per fini di puro e dichiarato intrattenimento, soluzioni narrative e visive più ricercate e belle da guardare.
Confrontarsi con soggetti simili rientra forse di più nelle possibilità del nostro cinema televisivo e può essere la strada giusta per raggiungere, ad esempio, il livello delle serie britanniche ispirate ai romanzi di Agatha Christie: chiunque avrà sempre in mente i romanzi originali e i film scintillanti con Peter Ustinov e dei cast di prim’ordine (per non parlare dell’Orient Express di Lumet) ma guardando i film televisivi con David Suchet nel ruolo di Poirot se ne apprezza la piacevole confezione e la recitazione di mestiere. Meglio un divertissement di lusso che un’acculturazione forzata per analfabeti. O no?
