Fiction Italia - Romanzo Criminale

Nel prologo, di ambientazione contemporanea, un maturo signore fa fuori a sangue freddo un bullo di periferia che lo aveva pestato a sangue poco prima. Il terrore della vittima si mostra un attimo prima di morire, quando l’uomo gli sussurra all’orecchio il proprio nome, chiedendogli se avesse sentito parlare di lui. Il giovane annuisce in preda al panico. Sa già che il suo destino è segnato, che quel vecchio è parte di un pezzo di Storia della malavita a cui ha fatalmente mancato di rispetto. E dopo lo sparo, in piena fronte, l’uomo si volta e grida “Io stavo col Libanese!”.
Dissolvenza su nero. Dalla Roma periferica di oggi si viene catapultati in quella di fine anni ’70, dove il mito della Banda sta per nascere. Il romanzo criminale ha inizio.
La serie diretta da Stefano Sollima rinuncia all’incipit amarcord alla C’era una volta in America, adottato dal film di Placido, dove i quattro ragazzini di borgata stringevano un patto di sangue tra dune dal sapore pasoliniano, per affidarsi invece alle pagine del volume di Giancarlo De Cataldo, seguendone il respiro ampio e i mille snodi da grande affresco malavitoso, divenuto presto un cult in ogni sua forma. Letteratura, cinema e ora televisione: la versione romanzata delle gesta della Banda della Magliana è a tutti gli effetti il primo vero caso di mitologia ‘gangsteristica’ italiana che, seppur nutrita negli anni da esponenti letterari e cinematografici come Scerbanenco e Di Leo, trova nella batteria romana il suo più ampio fenomeno di costume, degno dei gangster d’oltreoceano immortalati da Scorsese.
E se già la versione cinematografica si era resa un punto di riferimento imprescindibile per un nuovo cinema di genere italiano, la serie prodotta da Sky Cinema non le è inferiore in alcun modo, arrivando anzi a delineare una pagina decisiva nella storia della fiction italiana.
Sapevamo ormai che se una svolta doveva esserci era proprio sulla piattaforma digitale che avremmo dovuto tenere gli occhi puntati. Perché dopo diversi tentativi più o meno riusciti, tra gli esiti incerti di Quo vadis baby? e quelli, discontinui ma di certo più apprezzabili del recente Donne assassine, la maturazione sembra essere finalmente giunta.
Che la serie non nutra complessi di inferiorità nei confronti del parente cinematografico è evidente proprio dall’utilizzo degli elementi forti della narrazione filmica: alcuni momenti topici della formazione della banda - come quella chiave di volta che è per i protagonisti il sequestro del barone Rosellini con cui danno avvio alla scalata per la conquista di Roma, o la “stecca” proposta da Libano - vengono presentati ricalcando la pellicola di Placido, montando le immagini a venire del sequestro sulla voice over del Libanese, e con la medesima scena nella sala da biliardo dove tutti i componenti decidono di investire le loro quote nel progetto ambizioso del novello “imperatore”.
Ma è un riuso che, anziché indebolire l’operazione televisiva, ne rivendica il carattere, quello di riuscire a porsi come patchwork di diverse esperienze creative e di media differenti - il libro, il film - traendone forza e attivando così nello spettatore un meccanismo di identificazione sul quale imbastire le proprie innovazioni.
Spiazzandolo, insomma, proprio nel momento in cui pensa di conoscere già i dispositivi e gli ingranaggi della storia, cogliendolo di sorpresa quando più si sente al sicuro, come i godfellas romani con i propri avversari (“è quando sta dentro la tana che er sorcio se sente ar sicuro” dice il solito, machiavellico Libano a proposito di Shangai, spacciatore di Val Melaina, restio a cedere la propria zona alla Banda, ep. 3). Le innovazioni sono di varia natura: dalla maggiore attenzione al contesto politico-sociale di quegli anni, per cui, nel primo episodio, all’incontro dei membri della banda fa da contraltare l’uccisione di Giorgiana Masi e l’urgenza delle lotte studentesche. O quei momenti di ironia assenti nel film, molto più coeso nella sua struttura serrata da gangster movie, che invece concedono pause mai fuori luogo alla tensione e risultano anzi in linea con quell’umorismo tagliente, a volte persino grottesco, che è parte integrante della cultura romana (“me lo diceva sempre mi padre: la sicurezza d’un ber posto ar ministero” dice Libano al Freddo e a Dandi, giustificando la scelta di un edificio statale come deposito di armi e soldi).
E sono proprio loro, i giovani interpreti - Francesco Montinari (Libanese), Vinicio Marchioni (Freddo), Alessandro Roja (Dandi) e Marco Bocci (Scialoja) - l’ultimo, grande valore aggiunto dell’operazione. Volti sconosciuti ai più, che riescono a non far rimpiangere i più blasonati protagonisti del grande schermo, compreso - ed era davvero difficile crederlo - Pierfrancesco Favino, che nel ruolo di Libano aveva dato vita a un personaggio di statuaria malvagità e intelligenza, lasciando tuttavia trapelare anche il dolore di un ex ragazzo ferito dalla vita e deciso a prendersi la sua rivincita.
Ma se anche la vigliaccheria simpatica del Dandi di Santamaria e l’aria nobile, non corrosa dalle malefatte, del Freddo di Kim Rossi Stuart sono meno evidenziate nella serie, dove in generale manca quella spiccata attenzione per le psicologie dei personaggi, è comunque nell’atmosfera del racconto che la serie vince la sua scommessa.
Una Roma livida in cui alle gesta della criminalità organizzata si sommano le abiezioni del potere costituito, in cui ai giovani in protesta, vomitati dalle piazze e dai vicoli del centro, si accostano quelli abbandonati nelle borgate a farsi di eroina. In questo scenario da far west metropolitano si fanno largo gli antieroi decisi “a prendersi Roma” proprio perché città abbandonata a sé stessa, terra di frontiera alla mercé del più forte. E di fronte a uno Stato troppo impegnato a sconfiggere i fantasmi del comunismo con ogni mezzo lecito e (soprattutto) illecito, la città frana miseramente sotto il peso del piombo della Banda. Il vero azzardo e probabilmente l’atto di accusa più efficace di Romanzo Criminale, in ogni sua forma, è proprio la sua partigianeria verso questi caratteristici delinquenti, le figure in fin dei conti più pure e idealiste di uno scenario storico, sociale e politico aberrante. La fantasia al potere, dunque, anche se è la fantasia di una mente criminale.
