FLICKER

Flicker è un omaggio all’instant/frame-look, allo sguardo che non ha né può avere posa o respiro.
Caden Manson, founder dal 1999 del newyorchese Big Art Group, qui alla sua ultima creazione con la quale è stato celebrato l’anno scorso nella Grande Mela come “guru” della contaminazione franca tra tecnologie high tech e modalità teatrali, della polverizzazione delle abitudini percettive, della passione necrofila per la messa in scena della discrasìa tra l’immagine e la sua costruzione, spiega così la sua ricerca: “Il nostro lavoro...mette in scena un ‘occhio’ concentrato, infatuato e anche orrificato da ciò che vede. Siamo tutti dei terribili divoratori di immagini e quasi sempre comunichiamo tramite immagini ma non ci fermiamo mai a interrogarci su cosa abbiamo appena visto”.
Lo spazio scenico è rigidamente delimitato e articolato su tre livelli (un mistery play metaiconico?), il primo dei quali, dal basso, costituito da tre dispositivi di uscite video collegati ognuno ad una videocamera, il secondo da tre frames video a comporre un solo schermo dove sono proiettate le immagini delle azioni, e il terzo, in alto, dal live set televisivo dove operano fisicamente gli attori secondo una partitura rigorosamente codificata di azioni realizzate dal vivo “in tempo reale”, secondo la tecnica del ‘Real Time Film’. La performance costruita da Manson s’incardina sulla messa in scena della decostruzione e frantumazione dell’immagine ‘filmica’, del mix di estetiche contemporanee cinefile e non (b-movies, slasher movies, Tv spazzatura, real TV) e sul thrilling dei due piani narrativi prima paralleli, poi fusi in un climax tragico (un unico enorme incidente automobilistico). Otto attori ripresi a turno da tre videocamere digitali, quindi, si offrono allo sguardo dello spettatore mentre costruiscono il tessuto filmico di cui, agendo dal vivo, amplificano l’artificiosità. Due micronuclei narrativi (Jeff, pseudo suicida che ama riprendere scene ossessive e due suoi “amici/compari” di pari nera viziosità - storia 1. - un gruppo di amici persi nel bosco, tutti probabili vittime di un anonimo serial killer - storia 2.) sono il pretesto per scardinare la consumazione voyeuristica fornita dalla grandinata di immagini.
Caden Manson e gli attori ci colgono frequentissimamente “in flagrante” mentre ci chiediamo: dove rivolgo lo sguardo ora? E un istante dopo? E ancora dopo? A volte disturbato, altre punto dal collasso delle azioni dal vivo che appaiono e scompaiono dietro e dentro lo schermo che le cela e le contiene allo stesso tempo, chi assiste non può sottrarsi al “gioco”, alla crescente sollecitazione psico-visiva che lo catapulta nell’annichilimento totale del processo di riproduzione dell’immagine. E’ questa consapevolezza che innerva l’intero spettacolo - mostrare l’innesco del meccanismo dell’osservare il nostro sguardo mentre cerca inutilmente di depositarsi in un punto, istante per istante, e il parcellizzare il frame del nostro schermo percettivo in una cascata di stimoli autocontraddittori e nichilisti - che definisce, come ci ricorda Manson, “qual è il nostro ruolo come consumatori di immagini”: uno sfarfallìo senza posa.
Teatro, cinema e tv diventano qui indicazioni di appartenenza completamente svuotate di senso, anche se il teatro perdura nella performance dal vivo degli attori dall’esecuzione efficace e precisa.
I loro corpi vibrano ininterrottamente emanando energia per tutti i settanta minuti dello spettacolo, i loro volti da Arancia meccanica sono la visualizzazione della “deriva” della società dell’immagine. Esperimento spregiudicato o nuova frontiera della spettacolarità dal vivo, Caden Manson e i suoi non mancano il bersaglio: non si sfugge al loro guizzo.
[ottobre 2003]
Di Caden Manson e Jemma Nelson
regia: Caden Manson
assistente alla regia/drammaturgia: Linsey Bostwick
set/video: Caden Manson
banda sonora e musica: Jemma Nelson
costumi: Nini Hu e Kim Gill
luci: Steve TenEyck
produzione: “Le Vie dei Festival” 2003 in collaborazione con Teatro di Roma.
