X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



FLIPT 2016 - Sakura

Pubblicato il 27 giugno 2016 da Alessandro Izzi


FLIPT 2016 - Sakura

La prima immagine è un’apocalisse che urla tra lo schermo e il palco.
Mille voci, mille suoni che ammutoliscono di botto. Tutte insieme. Prima erano lì, ma ne sentiamo il suono solo al loro improvviso tacere, quando il silenzio ha preso il loro posto e a noi non resta che l’impressione di un eco che forse è più dentro noi che vogliamo continuare ad ascoltarlo che non nell’aria che in settantuno anni è stata mossa da altri venti.
L’orrore si è consumato da ben prima dell’inizio dello spettacolo e ora non ne resta che il racconto. Secco. Contratto. Ridotto a gesto come una sinfonia di Webern che mette un’intera sinfonia nello spazio di poche manciate di secondi.
Emozione tanto occidentale quanto orientale perché l’annientamento non conosce barriere culturali e si impone con la sua evidenza di fatto all’attenzione dello spettatore.
E così Sakura comincia con un quadro di evidenza simbolica pura e immediata.
Sul palco dei teli argentati che riflettono una luce fredda. Poche immagini sullo schermo e il suono, invadente come una cupa trenodia, su una voce che racconta di rovine, delle linee nude di una catastrofe che si è scolpita nel paesaggio e, quindi, anche nel ricordo di un’intera nazione.
Poi i teli si scuotono, si muovono e infine si alzano nella tensione di una forma che si rimodella sotto lo sguardo attonito del pubblico. Gesto visivo e sonoro al tempo stesso in cui al modularsi doloroso dell’immagine scolpita nello spazio si aggiunge lo stropicciarsi di un materiale che fa un rumore che trafigge il cuore. Ingombrante, invadente. Incapace di fermarsi. Continuamente teso in un movimento che fa male come una ferita sempre aperta.
Solo alla fine di questo aggrovigliarsi composto, che ha al tempo stesso la dimensione di un’agonia e l’impressione paradossale di un bozzolo che si rompe per aprirsi al volo, ecco che emerge da questo nulla fatto di brandelli di tragedia, Keiin Yoshimura.
Come fosse uscita dal manto di cenere radioattiva che era caduta gentile come neve, ma letale, nei giorni successivi alla catastrofe nucleare.
Ma questa neve, caduta dal cielo con soave gentilezza, ci lascia intendere Sakura non era solo quella della bomba. Il manto che ha seppellito due città, lasciando però scoperto il senso di rovina, non è solo un manto fisico e reale. È anche un manto culturale che si fonda su uno shock profondo e sottaciuto. È lo shock di una nazione che improvvisamente china il capo davanti a un conquistatore e si lascia gradualmente trasformare. È lo shock di un mondo che aveva fino a quel momento pensato al proprio imperatore in termini divini e lo vede ora sedere al tavolo delle trattative, alla stessa altezza dello straniero che però ha vinto. È lo shock di un mondo che comincia a dover parlare una nuova lingua e a cambiare mente come cambiano le parole per dire il mondo. È, soprattutto, lo shock di un sentimento del sacro che, fondato sulla limpida alternanza delle stagioni e in cui ogni cosa ha un suo spirito e la sua ricerca di equilibrio, deve scendere a patti con l’orrore di una bomba che ha sovvertito ogni ordine trasformando in incubo anche quello che nasce dalla terra e che sarebbe nato dal ventre delle donne per tanti anni ancora a venire.
Così l’universo sonoro che si impasta di Stars and stripes for ever (ma anche di lieder di Schumann), insieme con le immagini della videoproiezione, dà il senso di una tradizione che sparisce, seppellita da un nuovo che non viene da dentro, ma è altro, dolorosamente esterno.
Eppure in questo spazio post apocalittico che parla una lingua che ha dovuto imparare parole nuove per dire vecchie cose, resta sempre il ricordo di quel mondo che in qualche modo non è morto e forse non è ancora neanche materia da museo.
E cresce, piano piano, nel gesto tradizionale ma fatto nuovo da Keiin Yoshimura, la consapevolezza che solo quel mondo può essere serbatoio per una preghiera di pace, che solo il rispetto di un linguaggio antico può farsi portavoce autentico di un moderno sentimento.
Ed ecco che convive con la trenodia del Requeim per le vittime dell’olocausto nucleare un sentimento di preghiera che si riempie di speranza pur senza smettere di fissare l’orrore.
È probabilmente in questa convivenza di opposti che riposa tutta l’emozione dello spettatore di fronte a uno spettacolo la cui intensità si fa sempre più contratta man mano che ci scende dentro. Una poesia che ci chiede tanto di capire (pur nella consapevolezza di un linguaggio di cui il pubblico occidentale poco conosce le convenzioni), ma che sa arrendersi alla preghiera di riuscire prima di tutto a sentire.


Sakura
Di e con Keiin Yoshimura
Poesie: Sanchichi Toghe
Coreografia: Keiin Yoshimura
Motion graphics Art: Jun Kurumisawa
Motion graphics Program: Yuta Nakano
Effetti sonori: Tatsuya Ogusu
Maschera: Shigeki Tachi
Parrucca: Kanehisa Osawa


Enregistrer au format PDF