Un’immagine nel buio: Michael Cimino
Infinita bellezza del Creato.
Lo sguardo di una donna in un attimo di consapevolezza della bellezza fugace del presente.
Un sorriso minuto.
La birra, la sera, con gli amici.
Magari una sbornia.
Oppure il gesto quotidiano di battere le uova.
Piccole cose che sfiorano i limiti del quadro in uno zoom in impossibile dei sentimenti più minuti.
E poi rapido, il carrello all’indietro e il volo d’aquila su scene di battaglia.
L’orrore della guerra.
Le sparatorie che rompono il silenzio della giungla.
E una roulette russa piena di speranza disperata.
Oppure il paesaggio siciliano che si allarga riempendosi di luce e di ombre minacciose. Come Chinatown, nella solitudine dell’eroe che la attraversa con la segreta convinzione di aver troppo capito del mondo e dell’abitudine al male.
Esattamente questo respira nelle inquadrature di Cimino. Quest’anelito utopico al tutto, questo desiderio di un’inquadratura omnicomprensiva capace di contenere il mondo e anche il suo contrario in perfetta armonia. Il bisogno, quasi un’utopia, a riempirsi gli occhi di uno spazio assoluto che coglie tutto il giro d’orizzonte nella pupilla di chi guarda confondendo le carte tra finito e infinito, tra intimo e spettacolo.
Un cinema che combatte con i genere precostituiti sino alle soglie di un gigantismo che si scopre, però, miracolosamente segreto e piccolo. Fragile quasi, ma di una fragilità che ha le facce del cristallo. Una fragilità che aspetta che la luce l’attraversi per farsi arcobaleno di sensazioni. E che si fa sfrontata, come gli eroi che popolano le sue storie. Personaggi cinici, certo, spesse volte così chiusi nel loro fato troppo scritto da apparire quasi disperati eroi da tragedia greca, ma in cui il cinismo è maschera da indossare su una ferita inconfessata, su una fragilità, appunto, che è la stesso dello sguardo che li sogna.
Micheal Cimino se ne è andato. La notte scora di questo luglio crudele che ci ha tolto anche Kiarostami. In quello stesso anno che ci ha sottratto tanti troppi nomi.
Una morte che viene a suggellare definitivamente una mancanza che negli anni si era fatta dura come calce ed ugualmente friabile. Era dal 2007 che il regista non metteva, infatti, l’occhio dietro la macchina da presa. Ma si trattava, in quell’occasione di un paio di corti che toglievano più che aggiungere magistero a uno dei più grandi nomi del cinema contemporaneo.
Prima di allora era stato solo il 1996 di Verso il sole. Settimo titolo di un regista avaro che si concedeva il lusso di un film più o meno ogni cinque anni.
Un regista che nel corso di un ventennio, ha però regalato al mondo, titoli memorabili.
Da Il cacciatore che ha cantato l’orrore del Vietnam a Il siciliano che ha cercato un’immedesimazione impossibile con Salvatore Giuliano. Dal cupo cinismo di L’anno del dragone alla claustrofobia adrenalinica di Ore disperate, entrambi con Mickey Rourke, attore perfetto, per la tristezza con cui velava il suo cinismo a dare il senso di un titanismo infranto sugli scogli di una definitiva perdita di Senso. Sino a I cancelli del cielo, forse la sua opera più incompresa, più mastodontica, più sofferta.
Cantore della fine del sogno americano, Cimino ha saputo, nel corso della sua opera, tentare la strada di una ricomposizione, di un nuovo sguardo e di un nuovo sogno.
Forse troppo per un cinema che andava spegnendosi nella ripetizione e in cui non si riconosceva più.
Poeta silenzioso, aveva trascorso gli ultimi suoi anni all’ombra del ricordo del suo magistero.
E il suo silenzio è stato forse l’ultimo anelito a quella inquadratura assoluta che ha cercato tutta la vita. Immagine intuita nel buio dell’esilio che noi non meritiamo ora e chissà per quanto tempo ancora.