I racconti di Fernando
Una processione di quelle che si facevano una volta, di paese.
Davanti al corteo, la statua del santo che beccheggia sotto il passo malfermo dei portatori vestiti da parata.
Subito dietro, il parroco, minuto, che impartisce benedizioni a chiunque capiti a tiro dei suoi segni di croce.
Poi il sindaco, tronfio, forse anche un po’ pingue, che si fa bello della sua fascia tricolore e, per ogni cosa costruita in strada, si prende il suo merito. Capace di fare campagna elettorale anche della devozione di paese.
Infine la folla. Che prega. E tiene il passo della fede e della politica con la fatica delle proprie origini che non è quasi mai radice per un futuro migliore in questo bosco delle poche occasioni che chiamiamo Italia.
Marciano, queste figure da operetta, sotto il peso assordante della musica di banda. Camminano finché non raggiungono un tratto di spiaggia davanti al mare. Qui si fermano. E, con lo stupore bambino delle solite occasioni, aspettano.
Aspettano Fernando. Lo scemo del villaggio, ma fino a un certo punto. Quello che sa fare il pane buono, nel forno antico e pieno di fragranze. Quello che sa sempre quando è il giorno giusto per andare a pescare le spigole. Quello che in fondo sa raccontare le storie e, con la sua voce e i suoi modi bruschi, tiene avvinti grandi e piccini.
E Fernando cosa fa? Si toglie la giacca, ripone il cappello e si avvia di qualche passo tra le onde che discrete riportano a terra un po’ della loro memoria. Si guarda intorno, stupefatto, indeciso, poi, proprio lui che non sa scrivere né fare di conto perché a scuola non c’è mai stato, legge! Guarda nell’acqua e trova i segni di quando, nel passato, un ragazzo doveva stare sulla torre alta del paese per vedere se dal mare non arrivavano saraceni.
Perché Fernando, più che il cantastorie, incarna il senso ultimo del racconto. Fernando è la persistenza delle storie oltre il muro dei grandi eventi della Storia. Fernando è la memoria del paese e il senso ultimo dei racconti dei vecchi che partono dall’infanzia del singolo per confondersi con un’infanzia collettiva, quella mitica e atemporale per cui tutto è presente e tutto è passato al tempo stesso e per cui il medioevo sta vicino alla seconda guerra mondiale e sotto le scorze della ricostruzione ci trovi i ricordi dell’antica Roma.
Paradossale che un racconto per ragazzi, quale è I racconti di Fernando di Maurizio Stammati, si faccia carico di così tanta tragedia. Paradossale che riesca, con pochi tratti di consumata presenza scenica, a raccontare bombardamenti e fame con lo stesso senso di stupore con cui il bambino scopre la prima notte di luna piena o l’incredibile mole degli elefanti del circo.
Anzi, per ogni cosa lo spettacolo pensa per contiguità: è sulla piazza nata dall’assemblaggio delle pietre delle case distrutte dalle bombe che gli artisti circensi montano il loro tendone che sembra una mongolfiera; è nell’allegria della festa paesana che nasce il ricordo della paura delle invasioni.
Così in mezzo a numeri acrobatici per pulci (con tanto di incursione dell’attore in mezzo al pubblico) e a baracconate pulcinellesche che riportano il racconto alla tradizione nobile dei burattini e delle guarattelle, trova spazio il senso arcaico di un mondo che scompare: quello del racconto di paese, fagocitato dall’omologazione e dall’avanzata dei social media
Maurizio Stammati, autore, regista e attore de I racconti di Fernando riversa in questo spettacolo tutta la sua idea di teatro. Definisce lo spazio di un lavoro drammaturgico composito, nato dall’accostamento di numeri tra loro anche molto eterogenei che trovano collante in una precisa definizione stilistico/attoriale e investe il testo di incredibile energia. Sulla scena, grazie a un calibrato lavoro di mimica e di modulazione della voce riesce a farsi personaggio e coro, solo e tutti senza fratture apparenti.
Certo di fronte a un pubblico bambino il forte sembra avere il sopravvento sulle mezze tinte, eppure il testo è così pieno di nuances che non si stenta a immaginare quei sottovoce che l’attore può permettersi solo quando il pubblico è più partecipe e reattivo.
Soprattutto I racconti di Fernando è la magnificazione di un’idea di spettacolo in cui il racconto è prima di tutto consolazione dalla fatica del vivere. In questo modo, quell’emozione che Brecht aveva buttato fuori dalla porta, Stammati la riammette nella corte del teatro. Non per nasconderci le brutture della vita, ma per aiutarci a vederle da un altro punto di vista, per insegnarci lo sdegno e farci sentire il bisogno di reagire. Teatro didattico nel senso più completo del termine.
Sarà per questo che, dopo il racconto di Fernando, la processione si rimette in moto come è sempre stato sin dalla notte dei tempi, con la statua del santo seguita dal prete e dal sindaco che continuano la loro mascherata.
E poi dal resto della gente che smette di pregare per, finalmente, applaudire.
I RACCONTI DI FERNANDO
Incubi, lazzi e sogni di Cetrulo Pulcinella
di e con Maurizio Stammati
burattini di Carlo De Meo