X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



God -save the queen?

Pubblicato il 12 dicembre 2006 da Alessia Spagnoli


God -save the queen?

Due ritratti di signora di pregevolissima fattura, rifiniti con cura minuziosa da parte di Stephen Frears e Sofia Coppola, abili gioiellieri-cesellatori di una coppia di squisiti cammei d’attrice. Così potremmo consegnare alla “Storia” due uscite cinematografiche di quest’ultimo scorcio di 2006, gli splendidi The Queen (presentato a Venezia) e Marie Antoinette (mal accolto a Cannes).
Il cinema si è sempre prestato di buon grado al racconto di travagliate esistenze di sovrane inquiete, spesso ritagliandosi, con tocco felice, le proprie licenze poetiche. La Hollywood classica per prima ha intuito quanto questi cosiddetti biopic rappresentassero perfetti cavalli di battaglia per esaltare all’ennesima potenza il glamour di dive affascinanti. Si vedano i casi celeberrimi della Cleopatra di Liz Taylor, ma anche della solitaria Regina Cristina della Garbo, la battagliera Imperatrice Caterina della Dietrich, la fiera Maria di Scozia di Katharine Hepburn, la dolente Anastasia della Bergman, la deliziosa principessa scarmigliata di Audrey Hepburn (Vacanze Romane), l’algida principessa di Grace Kelly ne Il Cigno (lì l’arte anticipava la vita) o l’incantevole Sissi, trampolino di lancio per Romy Schneider (identico ruolo, spogliato però di tutti i paramenti e le dorature del passato, le ripropose Visconti nel Ludwig).
In quei film, però, l’approfondimento psicologico riservato alla primadonna era relegato solo in seconda battuta, meno importante, poniamo, rispetto al make-up o al costume della stessa.
Ultimamente questo genere particolare pareva destinato all’oblio (eccezion fatta per l’Elizabeth di Shekar Kapur, che ha avuto il merito di imporre all’attenzione un’altra bravissima interprete come Cate Blanchett), forse perché le storie “reali” delle teste coronate d’Europa avevano finito col saturare rotocalchi e piccolo schermo. Eppure, è proprio sulla scorta delle “vive” impressioni suscitate dall’improvvisa morte di Lady D. che Frears ripensa come quest’ultimo fatto di cronaca si fosse trasformato in quei giorni, in fenomeno abnorme di eccezionale (spropositata?) partecipazione popolare ai fatti privati di Buckingham Palace. Lady D. non c’era più, ma di lei, in fondo, praticamente tutto, o quasi, si sapeva. O almeno, così pareva a milioni di persone sparse per il globo.
Ma questa signora d’altri tempi, dall’aspetto quasi arcigno e impenetrabile, questa donna che pare aver accompagnato molti inglesi per tutto il corso della loro vita, chi è veramente? Sembra domandarsi Frears, lasciando trascorrere quasi un decennio da quei fatti, per far sì che quell’eccessivo bollore venisse sublimato e ridimensionato dal tempo, senza stare ad attendere però la dipartita dell’anziana regnante (o il tutto avrebbe assunto troppo smaccatamente i toni dell’omaggio).
Sempre bersagliata dal “fuoco nemico” per l’eccessiva rigidezza, Elisabetta II d’Inghilterra pativa il malcontento popolare proprio per ragioni diametralmente opposte rispetto all’infelice Maria Antonietta d’Austria, condannata dal tribunale della Storia per la sua leggerezza e capricciosità. Ce n’era di che porre l’accento sulla volubilità dell’umore dei sudditi, nel decretare le alterne fortune, in termini di popolarità, di figure considerate alla stregua di bambole senza personalità. “I regnanti come noi non hanno storia: servono solo di parata. Ci dimenticano presto. A meno che non ci diano un minimo d’importanza assassinandoci”. Queste parole profetiche metteva in bocca Visconti ad una ben più matura e consapevole Elisabetta d’Austria, nel già citato Ludwig.

Aderente fino al calco l’Elisabetta della Mirren (un’inglese per un’inglese: rimane comunque superba la sua prova d’attrice), e viceversa, perfetta nella sua interpretazione con la testa fra le nuvole, quella della giovane diva americana, cresciuta come il suo personaggio calcando set dorati. Ma anche qui la domanda della Coppola è la stessa di Frears: “Ma chi era, davvero, questa donna?” Senza stare a condannare, o tantomeno giudicare.
La Dunst presta “solo” il suo bellissimo volto alla macchina da presa, come una facciata di marmo. In questo è in fondo assai simile alla compostezza ingessata e raggelante della Mirren (e del suo modello).
Frears sembra costantemente preoccupato di smorzare i toni dell’opera, orchestrando dall’alto. La direzione della Coppola, invece, pare priva di qualsiasi sforzo. La figlia di cotanto padre, maestro di barocchismi di regia, dirige invece in punta di camera e vibra all’unisono con la sua creatura. _ La distanza nell’approccio al lavoro è diversa, come lo è il passo. Ciò che, ripensando i due film si riaffaccia più vivido alla mente è proprio il modo di muoversi delle due protagoniste: è al loro incedere che il registro stilistico fa largo e si assoggetta. La Mirren ripropone la camminata pesante, con le gambe leggermente divaricate dell’anziana sovrana d’Inghilterra, schiacciata dal fardello degli anni e delle sue responsabilità. Kirsten Dunst invece è lieve, e, quando il protocollo di corte pare soffocarla, lei se ne allontana con una corsetta leggera, fatta di passettini lievi. La Coppola le “risparmia” i tempi più difficili e bui, anche se quel finale, che recide la pellicola come fosse un fiore, di netto, è come una dolorosa puntura di spine registrata solo per un attimo dallo spettatore, fin lì totalmente inebriato nei sensi.
Gli esiti infine risultano distanti, certamente. Un affresco contro una statua di gesso. Un film primaverile per uno autunnale.
Solo in un punto i due film coincidono e si sovrappongono pressoché perfettamente: in esistenze tanto minuziosamente preordinate, scandite da cerimoniali prestabiliti una volta per sempre, le due donne recuperano la loro dimensione umana solo al cospetto di una natura ancor più regale, liberate dal peso dello sguardo altrui, possono per una volta dar libero corso alle proprie emozioni più nascoste, godendosi una fetta di Paradiso Privato. Al cospetto di un regale cervo o di una bimbetta ancora ignara (in questa scena, presente in spirito, del tutto inaspettatamente, Malick). Siamo al cospetto di due film che pur nelle loro irriducibili diversità, sono accomunati da un fascino talmente sottile e segreto che probabilmente non a tutti è dato cogliere. Beato chi riesce a percepirne il palpito lieve.


Enregistrer au format PDF