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Grand Hotel Schnitzler

Pubblicato il 5 marzo 2009 da Laura Khasiev


Grand Hotel Schnitzler

Lo spettacolo al teatro cometa off

È proprio un Grand Hotel quello che ospita i personaggi del Girotondo di Schnitzler e le loro ebbrezze incontenibili. La fusione tra due delle più celebri opere del drammaturgo viennese (Girotondo appunto e Signorina Else) viene palesata sin dal primo istante nello spettacolo portato in scena dagli allievi dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, dal 24 febbraio al 1 marzo presso il teatro Cometa off, all’interno della programmazione L.E.T. (liberi esperimenti teatrali). Si può definire dunque demiurgico il lavoro di regia compiuto da Valentina Rosati, una vera e propria riscrittura dei due testi, che ha portato a una “saldatura” tra la vicenda della Signorina Else (1924) e gli amplessi interscambiabili dell’opera datata 1897. l’intuizione della regista ha messo in evidenza come la vicenda della signorina borghese abbracciasse le tematiche affrontate in Girotondo. L’intersezione tra le due storie, che sono costantemente intrecciate, ne aumenta la drammaticità. Portare in scena in maniera adeguata le opere di Schnitzler è compito assai arduo, poiché, se è vero che all’epoca in cui furono pubblicate esse crearono stupore e sgomento tra i suoi lettori e spettatori, oggi tematiche “scabrose” come il sesso e l’incapacità umana di amare per sempre la stessa persona, sono state ampiamente assorbite e metabolizzate dalla società. Nonostante ciò Valentina Rosati è riuscita a riproporre il tutto sotto una luce originale, donando nuova linfa al messaggio schnitzleriano.

Il lavoro sul testo e la resa registica

Gli “incastri” amorosi pensati dall’autore sono stati i fili con cui Schnitzler ha ricamato un vero e proprio poema sull’impossibilità di amare. Nel porci di fronte a questo "limite" della nostra capacità di amare, l’autore viennese assume una posizione di vero e proprio “voyeur” dell’animo; una posizione scomoda che viene replicata, in scena, dal coro di attori che osservano, dall’esterno, le varie scene di sesso. Ogni personaggio della piece si promette un sentimento che sembrerebbe dover durare in eterno, ma su ognuno di loro incombe l’istinto mutevole dell’uomo, che lo porta a cambiare sempre partner. Le fasi di una vita divengono dunque sintetizzate in un “girotondo” di amori fugaci.
Quei personaggi che negli anni ’20 del novecento avevano scioccato la società, sono stati in grado di stupirci e sconvolgerci ancora una volta, grazie ad una rielaborazione per nulla accademica, che il teatro ha accolto nel suo ventre, facendo esplodere tutto ciò che nel testo sembrava ormai assopito, probabilmente proprio a causa della distanza che lo separa da noi. Nella vicenda tutti i ranghi sociali sono coinvolti, dai più bassi (quello della prostituta o della cameriera) ai più alti (quello del Conte, o dei borghesi). Tutto ciò per sottolineare che ogni individuo, indipendentemente dal suo ruolo e classe sociale, nel momento della sessualità crolla in uno stato animale, sprigionando tutte le proprie debolezze, oscurità e fragilità. Inoltre, cosa fondamentale, dà sfogo a una sorta d’istinto primordiale, che da una parte lo rende puro, dall’altra lo allontana da tutti quei cliché che si è costruito e che lo hanno categorizzato, soprattutto durante il positivismo, all’interno di etichette fautrici di perbenismo e ipocrisia.
Così il pubblico è posto di fronte ai propri contrasti interiori, si sente quasi violato nel suo intimo e scalpita contro tanta sfrontatezza. Schnitzler può destare fastidi anche oggi, proprio perché il suo testo è pieno di sfaccettature, sulle quali si può lavorare tirando fuori spunti interessanti. La regista Valentina Rosati ha saputo generare dei veri e propri paradossi, che hanno ridato nuova vita al testo. Inoltre incorniciando tutto all’interno dell’episodio riguardante la Signorina Else, ha portato alla luce nuovi elementi di riflessione. Lo spettacolo è riuscito appieno nella sua funzione sociale, facendoci andare con la mente, proprio verso quel “teatro della crudeltà” teorizzato dal celebre commediografo e teorico francese, Antonin Artaud. Infatti quest’ultimo lamentava il fatto che il teatro stesse diventando un luogo che trasformava lo spettatore in un voyeur, cosa che avrebbe portato all’abbandono delle sale sia da parte delle èlite che delle masse. Queste si sarebbero rivolte al cinema, al circo o alla rivista, per trovare “soddisfazioni violente”. Proprio utilizzando la metafora dei voyeur, la regista è riuscita a conferire alla pièce il compito di svegliare “nervi e cuore”. Dunque ci deve essere qualcuno che ci salvi dal “logoramento della sensibilità”, che va risvegliata proprio con azioni forti, come quella realizzata in questo caso dalla Rosati. Il ”teatro della crudeltà” nacque per “restituire alla scena una appassionata e convulsa concezione di vita” ed è sulla ‘crudeltà’ che si fonda questo spettacolo. I contenuti e le tematiche che esso intendeva trattare corrispondevano all’agitazione e all’inquietudine che caratterizzò quell’epoca, così come la nostra.
La regista è andata proprio in questa direzione, puntando l’attenzione su qualcosa che inevitabilmente incuriosisce, ossia il sesso, con tutti i suoi scomparti e dualismi, quali: desiderio, passione, eccessi, vita-morte, euforia- tristezza.

Il lavoro degli attori

Se la regista ha svolto una funzione maieutica rispetto ai testi di partenza, gli attori hanno realizzato una vera e propria riscrittura scenica degli stessi. Questo ha fatto sì che di Schnitzler restasse solo un’ombra dalla quale però è stata estrapolata l’anima e fatta rivivere proprio sul palco. Così è venuta fuori la vera essenza del pensiero dell’autore, entrata in contatto con lo spettatore. Quell’uomo ha vissuto nella stessa via di Freud, senza incontrarlo per anni, eppure fra i due, sono molti i punti in comune. Infatti c’è Freud nei testi di Schnitzler, tanto quanto Schnitzler nelle teorie dello psicanalista. Respiro della stessa aria oppure semplice sinergia, che il pubblico ha potuto assaporare attraverso lo spettacolo. Ed è proprio in questa prospettiva che assume rilievo particolare il fatto che ogni attore abbia scelto, per il proprio personaggio, il verso di un animale tramite il quale, con ritmo ascendente, è arrivato al proprio orgasmo. È la prostituta (Valeria Almerighi) ad inaugurare i “valzer” amorosi, schiacciando lo spettatore nella morsa della sua sensualità, ma anche nella crudezza della realtà in cui essa stessa è incastrata. Lei “può permettersi di scegliere” e di non farsi pagare, ma è pur sempre una prostituta che dà via il suo corpo senza alcuna esitazione, facendo scivolare il nitrito della guardia (Federico Brignone) nella carnalità dell’atto sessuale. Colui che si era fatto risucchiare dall’istinto animalesco, assume un atteggiamento più malizioso e altezzoso quando è alle prese con la cameriera (Naike Anna Silipo), dapprima restia, ma poi incapace di resistere, cede alle avances dell’uomo e il suo verso da gallina si fa man mano più frenetico, fino a diluirsi anch’esso in un orgasmo. Amerà quell’uomo “per sempre”, un sempre relativo che dura fino all’incontro successivo, quello con il Signorino (Davide Giordano), che come un serpente si insinua fra le braccia e i desideri della donna, trascinandola in un tripudio di passione irresistibile, dal quale egli è totalmente annientato, tanto da consumarsi in quel suo verso frastagliato e veloce, che subito dopo incontra il ragliare “aristocratico” della giovane signora (Cecilia Zingaro). Lei si presenta come una pudica donna dai buoni costumi, che presto però si frantumano nella debolezza della cupidigia sessuale… La donna subito dopo incontra il marito (Gabriele Portoghese), “incatenato” nell’elegante fascino del borghese, in un dialogo sulla vita, tramite il quale l’autore mostra la sfaccettatura più debole, ma anche più bella dell’amore. L’attore sceglie il verso di un cane e per l’esattezza un bracco, con cui trascina sé stesso e la moglie in un incontro breve e privo di carnalità, forse proprio perché incluso nella convenzionalità della vita matrimoniale, che rende il sesso lecito, dunque meno desiderato… Infatti il bracco si fa più appassionato e ansimante di fronte alla dolce fanciulla (Silvia D’amico), che come un tenero chiwawa addenta un panino e racconta delle sue esperienze nei separè, senza far capire se siano state o meno sessuali. La canzone Rossetto e cioccolato, di Ornella Vanoni, fa da ornamento all’arrivo di colei che ingenua cade nelle promesse dell’uomo, lasciandosi andare all’amore, e quando fa richieste, l’uomo la liquida con risposte rassicuranti, che però son del tutto diverse da ciò che egli fa intendere con tono di voce e atteggiamento… e non migliore sorte avrà la fanciulla nell’incontro successivo, suggestionata dall’arrivo del poeta scapestrato (Luca Mannocci), che col passo felpato, cavalca il palcoscenico, pervadendo col suo sguardo e il verso da galletto l’intera scena. Attirando a sé l’ingenua ragazza, che lo segue al ritmo della canzone dei Cassius, Toop Toop, sulle note della quale i due consumano la loro passione, dietro un separè, lontani dagli occhi di tutti. Se il giovane artista ha avuto la meglio con la ragazza, sarà l’altezzosa attrice (Ippolita Baldini) a metterlo in difficoltà, a rendergli il tono di voce isterico, espressione di un lato femmineo represso, a farlo oscillare nell’insicurezza della propria individualità. Tutte le incertezze che si “srotolano” nella disperazione del personaggio, aprono una finestra verso un altro dramma, quello del Casanova, non a caso ripreso proprio da Schnitzler in un’opera successiva. L’attrice, col suo verso da cicala e racchiusa in una dimensione eterea, sottolineata dalla gestualità e dalle parole, passa all’incontro successivo con il Conte (Nicolò Scarparo), che esterna la sua opacità d’animo, simulando il verso di un gufo e mostrando il lato più gelido della passionalità umana, nell’unione con la donna. Sono i valzer a scandire il ritmo tra una scena e l’altra e si arriva così all’incontro con Else (Barbara Ronchi), colei che per aiutare suo padre malato deve ottenere 30 mila fiorini.
Somma che può ricevere soltanto ad una condizione e cioè mostrandosi nuda al signor Von Dorsdey, su cui la regista ha posto il marchio di Conte, per narrare sarcasticamente l’individualità di questo personaggio. Else è in preda ad un conflitto interiore, che la fa dondolare tra il suo istinto di voler essere “una sgualdrina, come mai ce ne sono state prima”, e il voler restare nella gabbia dorata del suo essere borghese, dalla quale non riesce ad uscire. In lei forza e debolezza si intersecano e la rendono “nuda” di fronte all’uomo, ma anche di fronte a sé stessa. La sua scelta estrema però la sconfigge in un sonno eterno, torpore disegnato da un manto nero, che la ricoprirà per il resto dei giorni, avvolta in quel gesto di prendere una pasticca di Veronal, rivelatore di una ricerca di soluzioni facili, tipico dei nostri tempi. Il tavolo su cui essa è poggiata diviene il contenitore di due anime, quella di Else e quella di Leocadia, colei che ha aperto e chiuso il Girotondo, la prostituta, che è forse l’altra identità di Else, oppure semplicemente il lato oscuro della sua anima, manifestato sotto altra forma… Il Valzer 2 from Jazz Suite di Dmitri Shostachovic frantuma tutti gli accoppiamenti, portandosi via le passioni vibranti che avevano animato l’atmosfera del Grand Hotel, tutto confluisce in delle sbronze stilizzate, nelle quali i personaggi cadono come se si spegnessero per sempre, lasciando nello spettatore l’amara consapevolezza dei limiti umani di fronte ai sentimenti.


(Grand hotel schnitzler); Scritto e diretto: Valentina Rosati; Interpreti: Barbara Ronchi, Nicolò Scarparo, Valeria Almerighi, Federico Brugnone, Naike Anna Silipo, Davide Giordano, Cecilia Zingaro, Gabriele Portoghese, Silvia D’Amico, Luca Mannocci, Ippolita Baldini; Oggetti di scena: Bruno Buonincontri; Disegno luci: Camilla Piccioni; Tecnico luci:Andrea Vellotti; Foto: Anna Faragona


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