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Happy feet e le magnifiche sorti e progressive

Pubblicato il 19 dicembre 2006 da Alessandro Izzi


Happy feet e le magnifiche sorti e progressive

Molto si è detto, spesso a sproposito, della dimensione da realismo fotografico di una pellicola di animazione come Happy feet. La scelta di spingere la qualità dell’immagine e i modi del disegno verso lidi quasi documentaristici, infatti, ha determinato, nei commentatori, una reazione duplice: da una parte si è rimarcato come il film spinga al massimo le potenzialità offerte della computer grafica andando a cotruire un mondo assolutamente e scientificamente attendibile, dall’altro si è evidenziato come, piegando la fantasia ai limiti dell’arido vero sia venuto a mancare, nei disegnatori, quello spazio libero entro cui poter esercitare la propria fantasia.
La prima posizione, quella per intenderci, dei tecnici e dei programmatori si è fermata di fronte alla resa grafica degli ambienti innevati (il bianco con tutte le sue gradazioni, è uno dei colori più difficili da restituire sullo schermo) e ha espresso tutta la sua esaltazione di fronte all’eleganza dei flussi di bytes capaci di mimare la morbidezza del piumaggio dei pinguini. Un modo di leggere il film, questo, che si disinteressa di storia e personaggi (elementi puramente accessori allo sfoggio delle potenzialità offerte dal mezzo) e si concentra tutto sul virtuosismo espresso nelle singole immagini. Secondo questo principio di lettura, tutta la poesia del film trova la propria evidenza nel solo spazio dei dettagli. In altre parole è "al di qua" del film, lo precede. La pellicola diventa, quindi, solo il veicolo attraverso il quale la tecnica magnifica se stessa.
La seconda posizione è, invece, quella dei disegnatori "vecchio stampo" e poggia tutta la sua invadente verità in una considerazione da accettare con fideistico rigore: il disegno deve essere sempre altro dalla realtà e il disgnatore deve inseguire sempre l’astrazione del tratto e giammai la concretezza del Vero. Da questo punto di vista Happy feet è un fallimento artistico perché, con la sua scelta di resa naturalistica e documentaria del mondo, tradisce questo codice non scritto che legifera sull’assoluta ed insindicabile libertà del disegnatore.

Entrambe le posizioni non tengono conto del film nella sua interezza, muovono da categorie di lettura che non hanno niente a che vedere con la concretezza invadente del testo. Perché, ad uno sguardo appena più approfondito, ci si rende conto subito che non è vero né che il motivo della poesia della pellicola sia solo nella sua tecnica, né, cosa ancor più grave, che il film sia tutto basato sulla sola resa realistica e fotografica del mondo rappresentato.

Nel film trovano, infatti, spazio di espressione due diverse scuole di animazione che avverano una piccola rivoluzione copernicana delle aspettative del pubblico: da una parte abbiamo, infatti, il mondo dei pinguini che è davvero basato su un’esasperazione del piano di realtà dell’immagine, ma dall’altro abbiamo anche il mondo degli uomini che, viceversa, è reso coi tratti della falsità e dell’illustrazione più caricaturale.
Il mondo dell’Uomo irrompe nel piano visivo della pellicola seconda una strategia dominata dalla gradualità estrema. Dapprima per semplici "indizi" di una presenza incomprensibile: la scavatrice che vediamo sprofondare "innaturalmente" nel mare, i cerchi di plastica palesemente "finti" che costituiscono l’ornamento prediletto del pinguino sciamano, la piccola città e la nave inseguita da Mambo in mare aperto e così via. L’uomo comincia a comparire nel mondo del film inizialmente soltanto attraverso i propri stessi manufatti, mediante le tracce che lascia dietro di sé e che devono essere interpretate dai pinguini. E’ l’uomo l’alieno del film (c’è anche il gustoso gioco di fantascienza sui rapimenti degli animali da parte di non meglio precisati UFO) e ogni sua cosa non riesce ad apparire mai naturale: la scavatrice sembra un giocattolo, la città antartica ha dimensioni innaturali, gli uomini sulla nave si muvono a scatti, come macchinari, se rapportati alla fluidità di movimento dei pinguini. Fin dall’inizio l’uomo è il "mostro" del film e la sua realtà, prima ancora della straordinaria scena dello zoo, è resa da un disegno più tozzo, più sgraziato, più palesemente finto.

Nello zoo nel quale viene chiuso Mambo poco prima dell’enfatico happy ending della pellicola, le proporizioni di questo gioco di contrapposizione tra "disegno fotografico" e "disegno espressivo" tocca il suo vertice. Il povero pinguino si trova immerso in una realtà assolutamente innaturale governata da tempi e modi incomprensibili: il cibo che cade dal cielo, il paesaggio interrotto dal muro come in The Truman show (e la citazione appare più che volontaria) ecc.
E’ nello zoo che il protagonista entra per la prima volta in contatto con la realtà del mondo degli uomini ed è anche la prima volta che si viene a creare un vero raccordo di sguardi, sino a questo momento negato, tra un uomo e un pinguino. Un raccordo significativamente filtrato dal vetro che divide gli avventori dello zoo dai poveri animali messi in esposizione. La prima apparizione dell’uomo è inquietante e spaventosa: Mambo vede riflessa la propria immagine nel vetro, ma intravede, al di là di essa il primo piano di un uomo che lo osserva. Osservatore ed osservato si sovrappongono nella stessa immagine e, mentre prende corpo in una serie di scene sinceramente troppo dure per un pubblico bambino il tema dell’impossibilità di un dialogo tra queste due realtà, si vengono a sovrapporre anche i piani di realtà e di finzione entro cui oscilla sempre il film. L’irruzione definitiva dell’uomo nel piano della realtà del film segna una serie di rotture: da una parte l’apparizione del linguaggio umano relativizza quello pinguinesco che diventa incomprensibile non appena la macchina da presa passa al di quà del vetro mettendo noi spettatori a fianco dei nostri simili umani, dall’altra il disegno improvvisamente non naturalistico con cui viene rappresentato l’uomo ci riporta alla realtà, ci fa abbandonare l’illusione realistica che fino a questo momento aveva dominato incontrastata, per ricordarci che quello che stiamo vedendo è niente più che un film d’animazione.
Quello che abbiamo di fronte è, insomma, un vero e proprio gesto eversivo: ci riporta al nostro statuto di osservatori indifferenti e ci fa sentire alieni a noi stessi (anche qui il gioco di citazioni dalla fantascienza diventa espressivo: ad essere ripreso è A. I. di Spielberg).

La carica ecologica del film risulta amplificata da questa scelta di regia. L’uomo ignora il mondo che sta distruggendo. Si avvede appena che la sua presenza, come i cerchi di plastica che stringono al collo il povero pinguino sciamano sino a strozzarlo, può significare l’estinzione di un’intera specie. E quando se ne accorge lo fa solo in virtù del fatto che ha scoperto qualcosa di buffo o curioso (l’escamotage dei pinguini che ballano) e non perché ha raggiunto una matura consapevolezza del proprio essere al mondo. L’happy ending, reso forzoso dallo stile caricaturale con cui si sommano le informazioni (colmo dei colmi: attraverso lacerti di trasmissioni televisive) rivela un pessimismo di fondo: l’uomo salva i pinguini perché li trova divertenti, per lo stesso motivo per cui un film come Happy feet può avere successo al cinema.

Ma la conlusione cui ci porta la pellicola è un’altra ed è più amara. Appena il secolo scorso, al vertice del suo pessimismo cosmico, Leopardi scopriva una Natura indifferente al fato umano.
Le magnifiche sorti e progressive della moderna tecnologia hanno ribaltato le parti. Non è più la Natura ad essere indifferente all’Uomo, ma l’uomo ad essere diventato sordo al Mondo che lo circonda.

Nello zoo di Happy feet noi tutti abbiamo, per un momento aspettato che il visitatore freddo delle gabbie, ascoltato per un momento il grido di Mambo rispondesse alla fine:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. (1)

(1): Giacomo Leopardi: Operette morali: Dialogo tra la Natura e un Islandese.; 1824


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