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Horror Christi

Pubblicato il 18 aprile 2004 da Alessandro Izzi


Horror Christi

Il mistero della croce sta tutto nella sua apparente contraddizione tra la mortificazione del corpo e la sublimazione dello spirito, tra l’esaltazione del dolore e la sua miracolosa metamorfosi nella gioia estatica della contemplazione del divino. Figlia di una società, quella ebraica, che si era nutrita della forte contrapposizione tra la deperibilità del corpo e la magnifica eternità del Logos e dello Spirito, questa contraddizione era stata, poi, ereditata dalla società medioevale che aveva ancor più esasperato le componenti del discorso arrivando alla quasi totale negazione del corpo e alla quasi esasperata fisicizzazione dello spirito (azione questa, portata avanti anche grazie all’onnipresente figura retorica dell’allegoria attraverso la quale ogni categoria dello spirito finiva per avere una precisa controparte nel mondo fisico). Era il trionfo del gotico che trasformava il modello dell’arte slogan esemplificata dall’arco di Costantino in una sorta di trattato teologico per immagini. Ma era anche il trionfo dell’ambiguità che resta pur sempre una componente necessaria e consequenziale del discorso iconografico e che la cultura medioevale si affannava a scioglere mediante una forzatura delle leggi fisiche che si risolveva essenzialmente in un totale rifiuto delle convenzioni prospettiche in favore di una sguardo piatto in cui le figure del mito dovevano risaltare forzatamente sul resto del mondo (di qui le Madonne enormi osannate da committenti minuscoli, di qui la gerarchizzazione delle figure e dei personaggi tipici di tanta scultura e pittura medioevale fino a Giotto). A ben vedere questo principio di forzatura della realtà esaltato nell’arte dei periodi bui è una componente non secondaria del discorso portato avanti da Gibson nella sua Passione di Cristo. Quando molti critici si affannano a discutere la forza del realismo gibsoniano, in realtà, mancano il centro del discorso ultimo del testo filmico che non è orientato verso una resa realistica del mondo narrato (checché ne dica lo stesso autore), quanto piuttosto nel disperato tentativo di restituire la presenza del divino nel mondo contingente messo “in scena”. La totale mortificazione del corpo serve, dunque, al regista per restituire la dimensione estatica della crocifissione, la trasformazione del dolore nel perdono e nella preghiera. Fin qui, nel franco e non processabile terreno delle intenzioni, non ci sarebbe nulla da obiettare, ma, dopo la visione del film, siamo davvero sicuri che quella messa in scena sia davvero la mortificazione del corpo? Basta davvero l’esibizione del sangue e dei tessuti a riportarci alla fisicità organica del nostro essere transeunte? Forse la risposta è no. Perché per percepire davvero il senso della croce lo spettatore dovrebbe viverne, attraverso l’immagine, un’esperienza quanto più possibile concreta. Gibson, invece, forzando i limiti della rappresentabilità del corpo approda necessariamente al contrario esatto di quel corpo che pure voleva raggiungere. Quello che viene torturato sul calvario, fustigato dai gendarmi romani non è un corpo che lo spettatore può percepire come vero, ma un corpo/immagine la cui stessa esistenza soggiace a regole fisiche del tutto particolari. Nel mondo fisico quando un corpo cade esso è soggetto ad un’accelerazione direttamente proporzionale alla sua distanza dal suolo. Se un corpo, cadendo, è soggetto ad un rallentamento sostanziale (e questo avviene ogni singola volta che il Cristo cade: più delle canoniche tre) allora quello che sta cadendo non è più un corpo, ma qualcosa di totalmente altro. Un qualcosa che si potrebbe avvicinare, per certi aspetti, al modello del corpo così come viene rappresentato nel film horror, in particolare nello slasher e nello splatter. Anche in questo caso la rappresentazione del cadavere, l’esasperazione della visione dei tessuti, del sangue è funzionale ad una descrizione catartica dell’evento morte. Con la sola differenza che in questo genere di film il dettaglio disgustoso serve essenzialmente a formare una catarsi positiva che si nutre di una costante esibizione metareferenziale del materiale rappresentato. Ogni scena raccapricciante vive di uno statuto incerto con una forte componente ironica (e tanto più è profonda l’esibizione dell’organismo umano tanto più grande si fa questa componente ironica) in un modello di continuo rimando dall’una all’altra, in un andirivieni tra paura e divertimento che deflagra alla fine nel momento topico della rappresentazione. In questo modo lo spettatore è portato a non credere fino in fondo a quanto sta vedendo, ma è anche portato a fare i conti con la sua stessa deperibilità e mortalità, esorcizzando, con questo, la propria paura del dolore e della morte. In Gibson, anche per l’adesione all’altezza del soggetto trattato, è abolita ogni componente ironica sicché il corpo/simulacro rappresentato nel film non riesce a rimandare ad altro che a se stesso riuscendo, per questo, ad assumere un proprio significato solo per un pubblico fervidamente credente che riesce a riempire questa assenza di rimandi con la propria fede. Di più: poiché il film non è capace di essere mai con il corpo e con il dolore, il regista è costretto a ricercare al di fuori dell’immagine stessa la sublimazione dello spirito che dovrebbe partire nel corpo e nel dolore. La sua azione, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere quella di filmare l’orrore della tortura aspettando che, in questo orrore, potesse palesarsi il barlume del divino. Ma il Gibson credente sembra non avere abbastanza pazienza, né abbastanza fiducia nella possibilità che l’immagine del dolore possa ospitare la rivelazione del divino e, nella fretta di giungere al sublime, deforma quella stessa realtà obbligandola ad un sublime che non esiste ancora. Gibson, insomma, sembra nutrire nei confronti dell’immagine la stessa paura che ha l’uomo medioevale nei confronti dell’ambiguità insita in qualsiasi apparato iconografico. Per questo lo spettatore è messo di fronte ad un corpo/immagine che soffre una sofferenza fittizia in vista di un fine sacrale che viene obbligato a manifestarsi con una forzatura della realtà messa in scena. Insomma, per dirla tutta, il problema di La Passione di Cristo non è nel fatto che il film sia troppo realistico, ma, al contrario, nel fatto che lo è troppo poco. Dreyer avrebbe forse qualcosa da obiettare.

[aprile 2004]


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