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I film infiniti

Pubblicato il 21 giugno 2004 da Alessandro Borri


I film infiniti

La morte al lavoro. Ma anche il tempo fermato nel suo svolgersi, 24 volte al secondo. La mente creativa che cerca un approdo conclusivo, fissato in forma e durata, ma ambirebbe del resto all’eterna erranza che non conosce le ragioni del testo concluso. Cinema. Sospeso tra la sua natura intrinsecamente metamorfica e le esigenze commerciali che lo costringono a scadenze ferree (di uscita, lunghezza, formato). Che qualche folle ispirato aggira, sostituendo alla limitata immagine del film che c’è la possibilità senza confini dell’opera in fieri, consegnata non ai voraci occhi del presente ma alle ipotetiche modalità di fruizione dell’avvenire. I modi per sfuggire alle gabbie erette dall’industria intorno alla forma filmica sono molteplici. Può essere la corsa utopica alla perfezione di un Wong Kar-wai, restio come pochi altri a concedere al mondo la sua creatura (2046), mai sazio di rimaneggiarla, rimontarla, ricombinarla fino all’ultima spiaggia, alla cabina di proiezione (oggi, allo stampo delle copie del dvd; per una storia della realizzazione, vedi qui). Praticamente la versione nouvelle vague di Kubrick, tanto è fluido il suo rincorrere i mille rivoli del desiderio quanto era tetragona la pratica kubrickiana di assolutizzazione del segno. Entrambi però tendenti alla distillata erezione del monumento, di contro alla bulimia degli artefici di un’opera inarrestabile che si fa, in altro modo, tendente alla coincidenza con la vita (un tempo Fassbinder, Godard, oggi Johnnie To o Miike Takashi). Comunque, modernisticamente, opere aperte, in tutti i sensi. L’infinito può mettersi in forma nelle fluviali costruzioni fantastiche di Rivette o in esperimenti combinatori memori di Perec e Calvino (Babylon - Dogma 9 di Vladan Zdranovic, con le sue centinaia di variazioni a disposizione degli spettatori muniti di dvd; vedi Tina Porcelli, Perché questi bordi mi toccano, "Close Up" n. 14). C’è chi si modella invece geneticamente sul ciclo biologico e le stagioni della vita dell’uomo. Sono gli epigoni di Doinel (o magari delle telenovele, dove la vita “reale” veramente si sovrappone a quella “fittizia” tendendo a far crollare le residue barriere tra attore e personaggio): come Harry Potter e i suoi amici che crescono anno dopo anno nei loro corpi in formazione; il Linklater che segue lo sviluppo di un bambino per un work in progress decennale; il von Trier che, dall’alto della sua megalomania, rimanda al 2027 il compimento del suo Dimensions. Non solo l’amore fugge, ma la vita tout court. E allora è come al solito davanti a tutti Manoel de Oliveira che tornerà dalla morte come fantasma postumo di celluloide quando potrà “finalmente” (il più tardi possibile) essere visionato il suo testamento Memorie e confessioni, che data 1982. Senza dimenticare epigoni wahroliani (nel processo teoricamente eterno di cattura dell’invisibile) come Victor Erice o José Luis Guerín: dove ciò che si segue è il ciclo di nascita, crescita (eventualmente morte) di un quadro (El sol del membrillo) o di un palazzo (En construccion). Poi c’è il film virtuale per eccellenza. Quello che per mettere in forma un’imago di New York, dell’America (del mondo), per cogliere il suo divenire si condanna alla perpetua riscrittura, all’evoluzione senza termine. Sono ormai anni che Coppola parla di Megalopolis. Se il suo amico Lucas ha inventato l’opera plurima, che non si esaurisce nello spazio-tempo del film ma lo prolunga in altre vie di fuga immaginarie (libri, videogiochi, fumetti, rielaborazioni digitali di un girato ormai ridotto a schizzo preparatorio passibile di rimaneggiamenti infiniti), Coppola salta a piè pari la tappa della materializzazione dell’idea. Può anche continuare per sempre a ripensare la sua opera estrema: Megalopolis è il capolavoro del nuovo millennio senza che abbia bisogno di esistere.

[giugno 2004]


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