I viandanti di Kaurismäki sulla strada maestra di Le Havre

Segnalando il da poco uscito Almanya di Yasemin Samdereli e aspettando, dal Belgio, The invader di Nicolas Provost – già presentato all’ultimo Festival di Venezia –, qui diremo che negli ultimissimi mesi il cinema italiano si è interrogato, più o meno oculatamente, sulla tematica sociale dell’immigrazione; basti citare un amaramente ironico Francesco Patierno con il suo Cose dell’altro mondo, Gian Alfonso Pacinotti che ha firmato L’ultimo terrestre, Io sono Li di Andrea Segre, il traballante Terraferma di Emanuele Crialese, giungendo alle inquiete e apocatastatiche visioni de Il villaggio di cartone del maestro Ermanno Olmi.
Rispetto ai nostri registi (crediamo), quest’ultimo Kaurismäki ha affrontato l’argomento con un equilibrio maggiore e un linguaggio più immediato.
Spazio nevralgico dell’annunciato Miracolo è la marittima Le
Havre dove il mare, pur caratterizzando drammaticamente i tormentati viaggi degli emigranti, viene sapientemente sostituito, ingabbiato tra le pareti ferrose dell’enorme container che nasconde (provvisoriamente) il gruppo dei clandestini gabonesi, tra cui il piccolo Idrissa (Blondin Miguel). Questo primo elemento di confronto sottolinea in che modo la regìa di Kaurismäki si affidi all’immagine di Le Havre-città, facendone la struttura organica del testo filmico entro cui intessere una rete di percorsi congeniali allo sviluppo dei personaggi: il lustrascarpe Marcel Marx (André Wilms) percorre tutto il giorno le strade della cittadina normanna (il suo lavoro gliel’impone) e ne attraversa i luoghi (dalle vetrine dei negozi più costosi al porto, ai bar periferici, ai polverosi sottopassaggi della metropolitana); Idrissa fa il suo ingresso a Le Havre correndo, si
nasconde tra i vicoli, fino poi scoprire il paese con un piccolo viaggio in bus; tutto avvolto nel capotto scuro, il commissario Monet, invece, pare camminare da sempre lungo le vie dell’abitato francese, quasi fosse una creatura che si nutre del vento marino della Manica. In Miracolo a Le Havre v’è – se possiamo dir così – una centralità del camminare, sicché il motore narrativo del film finisce per risiedere in una certa azione dei suoi
protagonisti e le relative vicende, che si dipanano per strade e quartieri. Il continuo transitare dei viandanti kaurismäkiani svolge altresì una duplice funzione: innanzitutto è atto di testimonianza e di partecipazione reciproca al dolore, come ben ci dimostrano Marx e Idrissa, mentre compiono, in momenti diversi, una sorta di pellegrinaggio verso l’ospedale dove è ricoverata Arletty (Kati Outinen) – attraverso un’austera fisicità, questa donna tenace sembra incarnare la consapevolezza (e il possibile superamento) della sofferenza umana. Inoltre, il movimento dei personaggi diviene strumento per la scoperta dell’altro: lo stesso Marcel coi pochi soldi guadagnati si mette alla ricerca dei famigliari del bambino gabonese. Non a caso nel film si fa diretto riferimento a Kafka (letto ad Arletty da una conoscente) con la domanda: «Come potrebbero stancarsi i folli?» – il racconto, del 1913, s’intitola Fanciulli sulla via maestra – che è poi ciò che caratterizza i personaggi di Kaurismäki: una ricerca instancabile. Così faceva, in proposito, l’angelo wendersiano Damiel (Bruno Ganz) ne Der himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987), il quale, anziché librarsi sopra le cose similmente all’amico Cassiel (Otto Sander), camminava incuriosito e commosso in mezzo agli uomini per poterli ascoltare e afferrarne l’autenticità.
Attraverso una corporeità leggerissima che si misura con la densità
dei loro destini, Arletty, Marcel, Idrissa e Monet hanno le gambe dei
fanciulli, il coraggio dei folli e il cuore dei sognatori. Ecco l’autentico
miracolo.

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