Il bacio dello scorpione - da Scorsese a Drive

Il cinema di Nicolas Winding Refn è un percorso trasversale: basti
pensare alla trilogia di Pusher (Pusher [1996], Pusher II: With blood on my hands [2004], Pusher III: I’m the angel of the death [2005]) e Bleeder(1999), dove la violenza metropolitana è amplificata per mezzo del linguaggio documentaristico; oppure si guardi alle soggettive oniriche di Fear X (2003) come alle sequenze satirico-grottesche del biopic Bronson (2008); senza dimenticare l’incursione nelle suggestioni mitologiche di Valhalla Rising (Valhalla Rising-Regno di sangue, 2009). Giungendo all’oggi, il regista danese muta, una volta di più, il proprio registro stilistico: Winding Refn firma Drive, dal racconto omonimo (2005) dell’americano James Sallis. Il plot del film (l’anonimo protagonista fa il meccanico, lo stuntman nei film d’azione e, in notturna, l’autista prezzolato per i rapinatori: una di queste scorribande, compiuta dal driver per amore, gli cambierà la vita per sempre) – che già s’è aggiudicato la Miglior Regia al Festival di Cannes – rimane sullo sfondo perché Drive trova la sua significazione nell’analisi introspettiva del pilota senza nome (Ryan Gosling) nonché in una violenza puramente visibile: innanzitutto quella paesaggistico-strutturale delle riprese aeree, vale a dire una Los Angeles luccicante e vertiginosa che s’interseca all’urbanesimo orizzontale delle auto in corsa: qui ci sembra che il regista danese filtri il cinema del maestro Scorsese, con particolare riferimento all’emblematico Taxi Driver (Id., 1976) e al (fin troppo) sottovalutato Bringing out the dead (Al di là della vita, 1999), dove New York, inquadrata dal basso, s’incarnava in grattacieli di mastodontica arcana minacciosità, e pertanto risultava essere una città senza orizzonte. Rileviamo, poi, che lo stesso protagonista, i boss Nino (Ron Perlman) e Bernie Rose (Albert Brooks), fanno largo uso d’una brutalità esacerbata e gratuita. Tuttavia (si badi bene) la sfilza di coazioni fisiche cui Winding Refn ci sottopone è la dimostrazione che la megalopoli americana vive di finzione: il cinema di Hollywood, la sessualità monotona dei night club, la fosforescenza esagerata ed ossessionante di neon e insegne. I personaggi di Drive
subiscono una certa artificiosità, e non è un caso che Gosling indossi la
maschera di gomma dello stuntman per attuare la sua vendetta personale.
Per diretta conseguenza, e oppostamente a quella doppiezza delle cose, sono le mani nude del pilota-scorpione (l’immagine dell’aracnide marchia il giubbotto dell’uomo) a compiere gesti maggiormente autentici (ed esasperati): l’omicidio di Nino, affogato nel mare, e il pestaggio (in
ascensore) ai danni d’uno scagnozzo di Bernie Rose, che segue all’unico
bacio tra Drive e Irene (la vicina di casa, interpretata da Carey Mulligan).
Il fanatico vendicatore Travis Bickle (l’indimenticato De Niro di Taxi
Driver) e il condannato senza appello Billy Costigan (Leonardo DiCaprio
in The Departed [The Departed-Il bene e il male, 2006]) confluiscono
nella biologia del driver, vittima del suo stesso veleno. La regìa,
soffermandosi su primissimi piani di lungo respiro, si affida (forse
eccessivamente?) alla fisicità eloquente di Goslin, in un film dove i
sentimenti del protagonista non vengono mai rivelati completamente.
L’auto di Drive infine è inghiottita nel buio e qui lo sguardo di
Winding Refn arresta la sua corsa. Scavare nel silenzio dell’eroe vuol dire
anche sperdersi nella trama di percorsi (a noi) ignoti: s’incappa
nell’imbroglio del dolore. Aspettando di ritrovare la strada.
