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Il caso "Profumo"

Pubblicato il 2 ottobre 2006 da Alessandro Izzi


Il caso "Profumo"

Nel chiosare l’ultima fatica del regista Tom Tykwer la critica non solo italiana si è spesso chiusa in posizioni di retrovia centrando ogni chiave di lettura su un’impropria serie di confronti con il libro da cui il film è stato tratto.
Fa tristezza vedere, ancora una volta, come ogni riflessione che viene operata su un’opera cinematografica debba essere ricondotta, spesso malamente, nei confini di un relativismo con altre forme di espressione artistica quasi che il cinema non abbia ancora diritto, pur dopo le esperienze degli avanguardisti degli anni ’20 e dell’autorialità delle varie Nouvelle vagues, ad una propria autonomia espressiva.

Certo Profumo è in tutto e per tutto un’opera derivativa che si esprime nello spazio di un già detto e, quindi, il riferimento al romanzo di partenza dovrebbe essere d’obbligo per qualunque chiosatore, eppure la posizione preconfezionata (e qui in fondo sta il vero peccato mortale delle occasioni sprecate) di gran parte dei commentatori partiva dal pregiudizio di una presunta maggiore dignità autoriale del romanzo e per estensione della pagina scritta, nei confronti del film e dell’immagine. E questo accadeva passando spesso per posizioni assolutamente non condivisibili quando non francamente ridicole.
Rimarcare, come da più parti è stato fatto, l’impossibilità di rendere attraverso immagini e suoni, l’evanescente sfera dei profumi è cosa tanto ovvia quanto condivisibile, ma sottintendere, con questo, che una tale magia è, invece, possibile nel contesto del romanzo, quasi che la pagina scritta sia in grado di "profumare" l’essenza stessa della lettura è, sinceramente, assurdo.
Eppure molte righe sono state spese per dichiarare (e non certo dimostrare) questo assurto, mentre quasi nessuno si è concentrato su quello che dovrebbe essere il vero nocciolo della questione critica: evidenziare quali siano gli snodi attraverso i quali si è operato il passaggio da un codice linguistico all’altro, dalla parola all’immagine.

Il romanzo Profumo di Süskind, forse uno dei casi letterari più sopravvalutati degli ultimi anni, partiva dal tentativo di avverare al tempo stesso due potenziali utopie comunicative.
Da una parte esso tendeva verso l’assurdo di riuscire a comunicare, attraverso il fraseggio, il senso ultimo dei profumi, cercava, in altre parole, di evocare per il lettore, non tanto il profumo di una data cosa, quanto piuttosto il senso stesso dell’esperienza dell’annusare, dell’odorare, dell’essere completamente all’interno del profumo.
Dall’altra esso cercava di eliminare ogni possibile implicazione sessuale (non erotica e, in questa situazione risiede uno snodo importante per capire alcune scelte registiche) nell’operato di Grenouille che uccide per conservare il profumo (meglio l’esperienze di un profumo) e non certo per soddisfare qualche maniacale appetito sessuale.

Nel contesto della scrittura queste operazioni sono entrambe almeno parzialmente riuscite. L’astrazione della parola scritta, il suo ridurre ogni cosa al rango di idee e puri concetti (come già affermava Pasolini nei suoi scritti teorici) permette abbastanza agevolmente di avverare entrambi i desideri.
Tra tutte le forme di espressione, la scrittura è quella che lavora maggiormente "in sottrazione" è, in altre parole, quella che impiega il minor numero di elementi comunicativi ed è proprio per questo motivo, anche quella che può avverare il maggior numero di suggestioni e di evocazioni.
L’esperienza della lettura, che passa concretamente solo attraverso il profumo reale della carta stampata e dell’inchiostro, è tutta intessuta di suggestioni che sta poi al lettore di completare a suo piacimento. Se nel leggere possiamo arrivare anche ad avere l’impressione di percepire un odore questo dipende certo dall’abilità evocativa del narratore, ma dipende soprattutto da noi e dalla nostra capacità, in quanto lettori, di completare il disegno espresso nella pura sfera delle idee dalle parole astratte.
In questa luce si capisce bene come sia possibile, attraverso la parola, riuscire a liberare di ogni implicazione sessuale anche il novero dei delitti compiuti da Grenouille al fine di distillare il suo "profumo assoluto". La parola scritta riesce, infatti, a liberarci dal peso ingombrante della fisicità dei corpi, riesce a farci dimenticare carne e sudore e lasciarci con la purezza dell’idea che muove Grenouille sottraendo ai nostri occhi di lettori qualsiasi cosa che possa troppo odorare di sesso. E questo perché, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il romanzo non ci restituisce mai le cose in sè, ma solo (e non è poco) il senso dell’esperienza delle cose.

A questo punto sorge spontanea la domanda: può il film, che è una forma di espressione tutta basata sull’immagine, il colore, il ritmo il suono e anche la parola, riuscire ad avverare questi miracoli potenzialmente realizzabili sono attraverso l’"assenza" della parola scritta?
A vedere il film la risposta dovrebbe essere un si stentato.

Dei due miracoli richiesti, lo si vede bene, il più facile è proprio il primo. L’artifciio retorico della restituzione di una sensazione può tranquillamente passare attraverso la magnificazione di tutte le altre. La macchina da presa può riuscire, quando impiegata con gusto ed intelligenza, a suggerire ciò che solo lo spettatore può completare. Ma nel far questo deve essere invadente, anche compiaciuta perché bisogna partire dal presupposto che il lettore di un libro è se non altro un ricettore più attivo di un determinato messaggio rispetto allo spettatore di un film sempre passivizzato dall’esperienza onirica della fruizione dello stesso.
Tykwer, in questo senso, spesso eccelle nei suoi tentativi di annusare per noi attraverso le immagini e il loro ritmo, sia esso esterno al quadro (e quindi opera del montaggio) che interno (e quindi parte della composizione dell’immagine). L’esperienza dell’odore è resa attraverso artifici retorici vecchi come il mondo. La puzza atroce del mercato dove nasce Grenouille è il trionfo di un montaggio franto (che restituisce un senso di imperante spiacevolezza) mentre luci fredde e suoni sguscianti (il pesce rovesciato sui banconi) contribuiscono a darci il "viscido" permanere dell’odore così ruvidamente penetrato nelle nostre narici virtuali. Allo stesso modo ampie panoramiche montate su colori caldi e cullanti con l’uso inistito e pervasivo di pedali orchestrali nella colonna sonora, danno il senso della piacevolezza di una sensazione olfattiva che si vorrebbe conservare per sempre.

Se le cose possono funzionare nella mera sfera dei profumi, diverso è, invece, il caso del tentativo di "desessualizzazione" dell’operato di Grenouille.
Il romanzo, operando "in assenza" di corpi o di corpi messi in immagine, può di fatto concentrare tutta la sua attenzione sul puro operato del personaggio e sull’esperienza delle sue azioni. Dimentichi di ogni fisicità e dimentichi anche della concretezza ingombrante degli stessi profumi (che sono, lo si sà, potenti attivatori erotici) possiamo, quindi, assistere alle azioni "pure" di un profumiere intento al suo lavoro anche se permane il giudizio morale (tanto ineludibile quanto messo in crisi dalla particolarità dell’evento narrato) per il delitto appena consumato.

Tykwer, dalla sua, non può operare queste necessarie sottrazioni. Il regista ha davanti a sè il peso troppo ingombrante dei nudi seducenti delle vittime. Le situazioni, che prevedono pedinamenti, appostamenti, pazienza d’amanti spingono troppo il nucleo della narrazione verso lidi squisitamente erotici. E non basta centrare il grosso dei dilitti in un montaggio forsennato che priva le stesse vittime della loro fisicità e di ogni forma di psicologia per diminuire l’impressione sessuale del tutto. Anche perché la catena delittuosa riposa, comunque, all’interno della cornice dei due delitti principali fortemente caratterizzati da precise valenze erotiche: il primo casuale e non voluto, l’ultimo pazientemente ritardato (e cosa c’è di più erotico del ritardare il momento della passione?).
Anche la scelta di tentare di "deeroticizzare" il corpo attoriale del protagonista (Ben Whishaw) è destinata al fallimento più misero. Il suo non avere odore, e quindi sostanza erotica, funziona sì, sulla pagina scritta, ma nel film ogni azione ed ogni pensiero finisce sempre mediato dallo "sguardo desiderante" del personaggio ed urta con l’ingombrante fisicità del suo corpo. E non basta dargli un’andatura claudicante e rivestirlo di stracci per ridurne ogni implicazione sessuale. L’immagine è erotica di natura e l’icona di un bel giovanotto, introdotta com’è dall’inquadratura iniziale del suo naso trasformato in potente simbolo fallico, viene immediatamente ricondotta a precise valenze sessuali.

E’ precisamente per questi motivi, per questi fallimenti, ma anche per le sue utopie spesso realizzate (in alcuni momento l’immagine riesce davvero ad essere superiore al romanzo di partenza) che non si può liquidare troppo facilmente un’opera come Profumo.

[Settembre 2006]


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