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Il castello di Miyazaki Hayao

Pubblicato il 12 settembre 2005 da Valentina di Michele


Il castello di Miyazaki Hayao

Strane le sorti della gloria.
La curva ascendente della fama di Miyazaki Hayao, maestro indiscusso ed universalmente riconosciuto nell’ambito neanche troppo ristretto dell’animazione, si innalza quando quella del suo cinema si avvia al declino.
Non abuseremo, in quello che vuole e deve essere un omaggio sentito ad una personalità per noi importante- se non fondamentale- per il cinema mondiale (senza discriminazioni di genere), del pregiudizio (verosimile, come tutti i pregiudizi, e per questo più vieto) del criterio di commercialità: si renda un piatto insipido per le mense di ricchi e poverelli, giusti e corrotti, sani e degenti.
Se il cinema di Miyazaki sembra scivolare verso il deja-vu, non accade perché destinato a grandi platee internazionali, né di converso le suddette platee iniziano ad apprezzarlo perché standardizzato, appiattito, o semplicemente degassato per opportuni e doverosi vizi distributivi. La parabola del successo segue percorsi incerti, supera le strozzature o ne viene ingoiata: e agli ammiratori, fan, adepti o seguaci, adulti-bambini o adulti-adulti con il gusto del peccato di gola, non resta che gioire, vegliando la luce fioca di una candela che rincuora sui destini dell’animazione.
Quello ch’è ben chiaro, come una punta di amarezza che avvelena il castello di carte del Cagliostro lupiniano (che è lo stesso della piccola Chihiro), è che Sen to Chihiro No Kamikazushi, o meglio Spirited Away, e presto La città incantata, tocca gli apici della notorietà mediatica a legittimazione di uno stato di fatto. Di essere stato un blockbuster addirittura superiore a Titanic, in un paese commercialmente rilevante come il Giappone, di essere stato co-prodotto (e prossimamente distribuito, come in precedenza Mononoke Hime) negli Stati Uniti e nel restante mondo del cinema “serio” da un colosso come Disney/Buena Vista.
L’Orso d’Oro a Berlino 52, lo scorso anno, ex-aequo con il più ortodosso Bloody Sunday, e un Oscar al migliore film d’animazione, appena consegnato, non garantiscono la legalizzazione di un genere né la sua dignità presso i detentori accreditati del prestigio artistico. Galeotta fu non l’animazione ma chi la diresse- l’opacità di fondo del pur splendido (per inventiva, per estro, per giovinezza) Sen to Chihiro no Kamikazushi porta con sé, come bagaglio immateriale ed eterno, la forza morale di Lana (Mirai Shônen Conan /Conan il ragazzo del futuro), l’indomita determinazione di Nausicaa (Kaze no tani no Nausicäa/Nausicaa nella valle del vento), la prorompente duplicità di Hilda (Taiyo no Oji- Hols no daiboken /La grande avventura di Hols), la libertà immaginifica delle evoluzioni del Savoia S-2 (Kurenai no Buta /Porco rosso), l’ingenuità indimenticabile di Anna (Akage no An/Anna dai capelli rossi).
Le sfaccettature di un personalità che si è dispiegata, nel corso di quarant’anni di lavoro, in una miriade di volti, mani, divise, aerei, automobili, scope volanti per il servizio postale, code o buffe orecchie, gattobus (neko-bus), nasi arricciati, valigie.
Le valigie di tanti viaggi, quelli nel tempo, nello spazio, quelli fisici e quelli mentali, i viaggio dagli Appenni alle Ande di Marco, dal Peloponneso alla Germania di Peline, quelli verso le terre fantastiche di Laputa o lontano dal dolore di Indastia, le gite fuori porta di Lupin Sansei, i pellegrinaggi di Sen.
La crisi della società di produzione di Miyazaki e del suo fido collaboratore Takahata Isao, lo Studio Ghibli, le dimissioni ed i ritorni ad una delle realtà più solide del mercato dell’animazione nipponica, seguono di pari passo le oscillazioni creative dei suoi film.
L’Oscar a La città Incantata come Miglior Film d’Animazione (che ha peraltro rifiutato di andare a ritirare, in aperta contestazione alla guerra in atto) è un riconoscimento alla carriera, che investe un film che non sarà probabilmente ricordato come il più riuscito o il più amato fra quelli di Miyazaki, che nasconde le sue debolezze dietro mirabolanti voli pindarici e voluttuose policromie digitali, preferendo alla critica sociale il senso dello stupore infantile, l’assolutizzazione del sentimento umanista che ha pervaso tutta la sua produzione.
È un premio forse senza valore, all’ombra del fuoco degli Apaches statunitensi in una guerra un po’ più lontana, che si stempera tra le notizie di furori più vasti.
Ma anche a questo, una sua risposta Miyazaki Hayao ce l’ha già data. E di questo gli siamo grati.


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