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Il cinema di Mario Bava - tra horror e glamour

Pubblicato il 31 maggio 2013 da Francesca Dimasi


Il cinema di Mario Bava - tra horror e glamour

É difficile comprendere la personalità di Mario Bava se si prescinde dal quel clima fertilissimo del dopoguerra italiano che ha visto affacciarsi sulla stessa scena figure profondamente eterogenee tra loro. Accanto ai grandi nomi del neorealismo compaiono gli autori che di lì a poco lo avrebbero superato, inaugurando una nuova modernità e nuove forme di realismo (Visconti, Antonioni, Pasolini, Fellini e perfino lo stesso Rossellini). Sempre sullo stesso terreno si fa largo un curioso gruppo di maestri/artigiani che un po’ per gioco e un po’ per necessità praticano un altro tipo di cinema, se vogliamo meno intellettuale ma non per questo meno amato dagli stessi Cahiers du cinéma che in quegli anni scoprivano l’ ennui antonionienne.
Facile intuire come la fine della guerra e l’apertura delle frontiere a quel cinema rimasto oltre oceano per troppo tempo, avessero scatenato la curiosità del cinema nostrano verso quel tempio delle meraviglie che era la Hollywood dei Bogart, Garbo, Valentino... Si parla in questo periodo di una tendenza sempre più frenetica del cinema italiano a emulare quello americano, copiandone stilemi e modelli ma soprattutto mutuandone i codici di genere. Ebbene nasce in questi anni il cosiddetto B-movie, B perché di serie B naturalmente rispetto a un cinema di serie A da cui si allontana non solo per ragioni estetiche ma anche e soprattutto economiche. Ma un cinema di serie B lo si sa, in quegli anni esisteva anche in America con la differenza che il divario economico che separava i due gradini del cinema, diventava giocoforza per quegli autori che, proprio perché dispensati dall’esame di botteghino e dalle aspettative delle Major, delineavano nuovi scenari tematici e nuovi target spettatoriali. Nasceva così un cinema indipendente dai dettami e dalle strette delle case di produzione e con esso IL cinema indipendente. In Italia non fu poi così diverso, con l’aggiunta che, fu proprio nel seno di questo filone di serie B, che il cinema italiano tutto compì il suo incontro con il cinema di genere. Erano gli anni in cui Lenzi, Caiano, Francisci, Freda, davano vita alla fortunata saga dei plasticosi Peplum con i vari Maciste ed Ercole. Sempre agli stessi vivacissimi autori va il merito del confronto con il più sacro e fondante tra i generi americani: il Western. Film come Il segno del cojote (Caiano, 1963) o Il grande silenzio (Corbucci, 1968) inaugurano l’italianissimo Spaghetti Western poi consacrato dalle opere di Sergio Leone (è con Leone che si compiono fusioni e ibridazioni del Western con la grande tradizione italiana della commedia dell’arte, caratteristiche identitarie del Western made in Italy). E poi il ciclo Fantascientifico/Fantapolitico con Lisa Gastoni dei vari Bava e Margheriti, che sopperisce al dispiegamento di risorse scenografiche ed effetti speciali del gigante hollywoodiano, con ingegnose invenzioni e trucchi del mestiere. Il genere di Fantascienza in Italia assume connotazioni galattico-familiari quand’anche futuristiche (relativamente a quest’ultima tendenza una menzione speciale va al gioiello di Elio Petri del 1965 La decima vittima).

Veniamo quindi al nostro autore: Mario Bava. Una figura ibrida e produttivissima come i suoi colleghi impegnati al contempo in Western, film di Fantascienza, Gialli, Peplum. Ma ciò che distingue Mario Bava da tutti gli altri è qualcosa che salta subito all’occhio. Perché sebbene vi sia in Bava una certa dose di umorismo che attraversa in filigrana i suoi Horror e i suoi Gialli (e che diventa il marchio distintivo del nostro cinema di genere, basti pensare alla Sexy-commedia o alle parodie sorte sulle ceneri del Western), in Bava il metodo viene prima del film stesso. É un autore che passa alla storia per essere colui che meglio di chiunque altro ha interpretato il mestiere del cinema, ricco di un sapere tecnico che ha messo a servizio di intuizioni brillanti e trovate impensabili (sono famose le sue machette, modellini in prospettiva in luogo di maestose scenografie). Ciò che forse non si dice mai abbastanza è che il dominio del cineasta in Bava non si ferma mai alla paziente minuzie dell’artigiano, alla libidine del gioco, all’arguzia del prestigiatore che incanta con i suoi trucchi. In opere come Sei donne per l’assassino del 1964 o I tre volti della paura, 1963, è evidente quella transizione che il nostro cinema stava operando verso nuove mete formali, mete che Bava è il primo a conquistare.
Non sbagliamo allora dicendo che la personalità di Bava ha carattere fondativo, di iniziatore, carattere proprio di ogni autore cui attribuiamo la paternità di qualcosa. Nel suo caso non è solo il battesimo di uno o più generi (l’Horror, la Science fiction o il Giallo e la loro fusione, oppure l’avvio di sottogeneri come lo Slasher movie) che non sarebbero altrimenti esistiti, quanto piuttosto una paternità legata al fatto che sarebbero esistiti altrimenti, vale a dire in altre forme. Quelle attraverso cui li conosciamo e che hanno determinato una genealogia dei generi in Italia portano la firma di Mario Bava. Più che un maestro della luce egli è un light performer: la sua personalissima indagine intorno alla paura, segue delle vie antitetiche alla tradizione americana del buio o dei contrasti chiaroscurali (di derivazione espressionista). In Bava "la paura è bella!", o meglio intesse sensuali relazioni con la luce e ancor più con i colori. Fermiamoci ancora a I tre volti della paura: i colori prendono vita come da un light show; essi rimangono accesi, primari e vividi, perfino per il sangue (in Sei donne per l’assassino ad esempio) il nostro autore abbandona il colore torbido e stantio per un rosso vivo, quasi acido, prossimo alla lucida cosmesi delle indossatrici.
Con Bava la scoperta del terrore si nutre di desiderio visivo, non siamo davanti a un rigido formalismo ma a un laboratorio di intuizioni figurative in cui piacere e orrore si mescolano vertiginosamente. Ciò si spiega anche con una concezione adulta dell’Horror (genere che in America mieteva i suoi più grandi successi presso una fetta prevalentemente adolescenziale di spettatori), ed ecco perché sin da subito l’horror di Bava emana risonanze sessuali non tanto in chiave psicanalitica quanto puramente formale (si pensi all’ orrifica seduzione del corpo femminile nel bacio necrofilo in La maschera del demonio, 1960).
L’horror italiano, la cui eredità sarebbe passata nelle mani di Dario Argento, si distingue per essere un genere del paradosso: quello in cui l’orrore e il glamour coabitano nelle stesse forme.


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