Il cioccolato e il suo doppio

È difficile riuscire a capire fino in fondo i motivi della poesia di un film come La fabbrica di cioccolato. Difficile per più di un motivo.
L’ultima fatica di Tim Burton, infatti, sfugge o sembra sfuggire ad ogni approccio critico codificato e si propone al proprio spettatore come un vero e proprio caleidoscopio di situazioni ed ossessioni, un frullato virtuale di burtonismi che girano a mille come trottole impazzite nel limitato spazio di una proiezione cinematografica. È come se una bomba fosse stata installata nel corpus magmatico della giostra burtoniana che esplodendo si è lanciata nello spazio lasciato vuoto dal racconto in una serie di schegge acuminate che brillano nel volo per un fugace e terribile momento.
Tutto quello che avevamo imparato a leggere nei film o nei libri di questo genio riconosciuto, sembra aver perso di significato perché un nuovo Burton sembra ammiccare tra le spoglie del vecchio e tutto quello che ci era sembrato fino a questo punto familiare sembra improvvisamente dover cambiare di segno, rivelarsi inusuale, nuovo, inaspettato.
La prima difficoltà la incontriamo, in effetti, non appena tentiamo di dare risposta ad un quesito all’apparenza semplice: chi è il vero protagonista di La fabbrica di cioccolato? È Willy Wonka, con i suoi scherzi maligni, il suo umore saturnino e schizofrenico, i suoi scherzi aberranti che sembrano venire direttamente da un aldilà cartoonistico? O non è, piuttosto, il piccolo Charlie, con la sua candida anima incline a mille stupori infantili? È, in altre parole, il genio malefico, con spirito da folletto incarnato da Johnny Deep o l’anima disneyana, del fanciullino alla Spielberg cui deve essere assegnato a priori il ruolo salvifico e il senso ultimo del film?
E da questa domanda, non certo di poco conto, discende automaticamente un secondo quesito ancor più inquietante: qual è il vero senso della pellicola? Ci troviamo di fronte ad un’ennesima canzone d’amore per il diverso e l’abnorme o non, piuttosto, al trionfo, sia pure ambiguo, dei buoni sentimenti dei sani valori familiari?
Sino a questo momento, in effetti, l’universo burtoniano sembrava regolato da regole a suo modo limpide e cristalline. I protagonisti delle sue pellicole (ivi compreso l’Edward Bloom di Big Fish) erano sempre delle figure abnormi e apparentemente favolistiche che basavano tutta la propria sofferenza esistenziale su una dicotomia perennemente insanabile tra interiorità ed esteriorità. Dall’interno personaggi come Edward mani di forbice o Batman mantenevano inalterata una dimensione di assoluto candore ed ingenuità, un Io bambino inviolabile e del tutto incapace di scendere a compromessi con le storture della vita quotidiana, dall’esterno mostravano una faccia mostruosa, spesso raccapricciante. La società precostituita (al fondo non meno mostruosa ed assurda del personaggio con cui entrava in contatto) non poteva far altro che certificare una sostanziale estraneità tanto con l’aspetto esteriore, quanto con l’interiorità di questi personaggi esemplari trovandosi alla fine costretta quasi a ricacciare al margine ciò che non poteva sostanzialmente comprendere. Certo a tutta prima si ravvisava, come in Edward, un modaiolo tentativo di assimilazione dell’alterità, ma tale accettazione era solo di superficie ed era fin dall’inizio destinata a ritornare in quel nulla da cui era provenuta. Per questa società, del resto, non era tanto l’aspetto esterno a produrre il rifiuto quanto l’improvviso venire a contatto con quella totale assoluta innocenza (questa si percepita come assolutamente mostruosa) che rimaneva la cifra inviolabile del personaggio. Anche figure come il Pinguino del secondo Batman portavano avanti una stessa dicotomia, ma, in loro, la dimensione umana e innocente finiva dolorosamente compromessa da un’azione di rifiuto della società che sfociava necessariamente, e non poteva essere altrimenti, nella vendetta.
In Willie Wonka il percorso sembra essere inverso. Molti critici hanno usato la scena del taglio del nastro all’inizio del film come segnale di una precisa continuità con un film come Edward mani di forbice. In realtà, ci pare, se un rapporto sussiste con il vecchio film burtoniano questo è di rottura assoluta. Willy, da un certo punto di vista, è l’esatto contrario di Edward. Anzi è un vero e proprio antiEdward. Se, infatti, Edward è l’assoluto candore ricoperto dalla mostruosità gotica di un costume capace di ferire il prossimo, Willy è, al contrario, una mostruosità estranea che si ricopre dei colori al technicolor e dei balletti (sarcastici) della favola disneyana. Una mostruosità che si copre con un’altra mostruosità solo all’apparenza sana e normale. O, se preferite, un’innocenza (quella dei flash-back) che si è a tal punto incancrenita nei dolorosi contatti con il mondo, da diventare alla fine non meno deforme. La fabbrica di cioccolato è il racconto di quello che succede ad Edward dopo che, fuggito dal mondo perché da esso scacciato, si è inasprito nel dolore della propria condizione fino a perdere ogni traccia della sua stessa bontà. È l’innocenza che scade nella colpa del rifiuto di se stesso, del proprio passato, e degli altri.
Gli scherzi che compie nei confronti dei suoi ospiti, immersi come sono nell’acido corrosivo del contrappasso, sono il segno palese di un tentativo di ricostruire la realtà mediante il gesto dell’arte che non è salvifico, ma si fa portavoce di uno spirito di vendetta terribile quanto sublime.
Anche Edward riscriveva il mondo nella sublimazione dell’Arte delle sue sculture, ma il suo gesto si piegava alla bontà di un gesto gentile. Le sue forbici potevano, è vero, ferire, ma potevano anche essere piegate ad accorciare con tenerezza il pelo di un cane tanto lungo da coprirgli gli occhi.
L’innocenza perduta di Willy prende allora corpo in un altro personaggio: Charlie. La dicotomia tipica delle pellicole burtoniane si esteriorizza e si moltiplica e La fabbrica di cioccolato diventa la storia di un uomo e del suo doppio bambino. E solo quando la mostruosità wonkesca riesce ad accettare al proprio interno l’innocenza candida del bambino perduto, solo allora diventa davvero possibile ritrovare la propria dimensione e il proprio senso nel mondo. La scena finale del film è in questo senso esemplare con l’immagine della casa di Charlie tanto dickensiana quanto incredibilmente beckettiana (pensate ai nonni del piccolo) finalmente incorporata nella fabbrica di Willie.
Un dolly all’indietro che scopre, nella magia di un’altra nevicata (finta come quella che chiude Edward mani di forbice), le contraddizioni finalmente accettate di un uomo con se stesso. Un finale apparentemente zuccheroso che ricorda, ironicamente, però, e questo dà da pensare, più il Solaris di Tarkovski che non le edulcorate fantasie di Disney.
[Ottobre 2005]
