Il circo invisibile

Il contesto è quello del contemporary circus, genere oramai appartenente alle arti performative, in cui i vecchi canoni circensi si vestono dell’estetica contemporanea e si mescolano in modi più diversi a tutta una serie di altre e gloriose arti di scena. Si parte col Circus Oz australiano, della fine degli anni settanta, e si comprendono le due compagnie più celebri, entrambe canadesi, del Cirque Du Soleil e il Cirque Eloize, per arrivare quindi al Cirque Invisible di Victoria Chaplin e Jean-Baptiste Thierrée. Lo spettacolo, produzione Karavane Productions, è in scena al Piccolo Teatro Di Milano Teatro D’Europa nella sua sede del Teatro Strehler dal 18 al 22 febbraio 2012.
Qui c’è innanzitutto tutta una serie di innumerevoli gags, molte delle quali sono solo delle espressioni corporee variopinte che entrano in scena solo per qualche secondo e si dissolvono tra le quinte con le luci di scena. La prima cosa che viene in mente è Harpo Marx, che suonava l’arpa e non parlava mai, del celebre quintetto di comici americani (Marx Brothers): primo dei cinque a esordire, nel 1925, in Too Many Kisses di Paul Sloane, da un racconto di Monk Saunders (sono gli interni e la fotografia d’interni della grande Hollywood della Lost Generation: tra cinema, fotografia, letteratura, arti figurative in genere, design, poesia e performance, è probabilmente proprio da qui che parte tutto il discorso sull’arte contemporanea).
Jean-Baptiste Thierrée prende in mano il repertorio di Harpo Marx e lo ripropone aggiornato ai tempi che corrono e all’emozione complessiva della serata, trasferendo per intero sullo spettatore la stessa dolce e melodica poesia della risata profusa a suo tempo da Harpo Marx con le note del suo inseparabile strumento musicale in una sequenza di brevi epifanie comiche, e tra l’altro in molti casi esattamente nei termini del cameo breve come Harpo Marx nel film di Sloane. E questo da solo è di per sè un fatto così bello e raro che dello spettacolo descrive la grandezza nonostante il tenore semplice e mite nel suo insieme - si, okay, anche Buster Keaton; o anche in Totò A Colori, ad esempio, primo film italiano a colori (con The Cocoanuts i Fratelli Marx contribuiscono al successo del sonoro), c’è una sequenza analoga di trovate e siparietti e set pieces vari, uniti solo da una trama improbabiile o surreale, stando più vicino a noi, o si può pensare a Jacques Tati (Mon Oncle), Peter Sellers (The Party), ma qui il discorso si complicherebbe un po’ troppo oltre l’interesse e la competenza specifica.
Accanto gli si muove Victoria Chaplin, la moglie, camaleontica interprete della metamorfosi del bestiario del fantastico, che inanella con destrezza i vari passaggi dell’evoluzione al suo inverso, dall’uomo agli animali mitologici, ai rettili, agli invertebrati, agli anfibi, agli uccelli, ai mammiferi, e in rare occasioni ancora all’uomo e a qualcosa di più, agli organismi viventi di altri mondi, di altri tempi, e probabilmente non solo di quelli passati.
In scena sono solo in due e un armamentario di vesti moltiplicato dalle luci e dalla capacità degli attori di farle apparire ogni volta diverse in relazione alle diverse modalità di vestirle a seconda dei vari soggetti da mostrare al pubblico - e con una stessa veste di scena, avvolta da un medesimo tessuto, la figlia di Charlie Chaplin si trasforma in più cose assieme nel volgere dello stesso pezzo; così come con la valigetta riempita delle medesime cose, Thierrée entra in scena diverse volte, illuminato ogni volta da una luce diversa per esibire gags di volta in volta diverse. I due a turno quindi entrano ed escono di scena centinaia di volte.
I ruoli sono molto ben ripartiti e altrettanto ben suddivisi. A lui il compito di far ridere, a lei l’incanto di avvolgere con fascino il teatro. E il teatro è pieno in ogni ordine di posto, come da tempo non lo si vedeva così pieno, nonostante si tratti di un ripescaggio, di una sostituzione, e della sostituzione dello spettacolo di Mariangela Melato che non è potuto andare in scena - c’era quindi molta attesa a riguardo, e le attese sono state soddisfatte tutte quante a pieno.
Tecnicamente non si tratta di niente di particolamente complesso, ma è la semplicità e l’eleganza dell’estetica del sublime della messa in scena cha ha fatto da padrone, e l’immediatezza soprattutto, di uno spettacolo che si comunica per vie molto dirette e facili, soprattutto considerando che si tratta di due ore e passa imbevute di ottima nusica contemporanea, elettronica e di sperimentazione che passa per il corredo metafisico di un’opera di eccezionale bellezza.
E se poi gli esseri umani in scena sono solo due, esclusa la poesia della metamorfosi della Chaplin, con gli altri conigli e le oche delle oche, uno dei motivi conduttori è un gigantesco coniglio bianco, Bianco Niglio (solo per inventarsi una traduzione, sulla sua porta di casa la targa dice W. Rabbit) di Lewis Carroll: è lui, esiste, si è finalmente fatto di carne e ossa. O The White Rabbit, appunto, che comunque ci conduce nel paese di uno spettacolo meraviglioso e segna il tempo anche per le musiche di scena, tra l’altro, se White Rabbit è un brano di Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane e se in ogni caso sempre qui si va a parare, con Alice Nel Paese del Meraviglie, per parlare di emozioni sperimentali, di poesia che vibra di strane sensazioni tra antiche fibre di pensiero e una distratta percussione emozionale, travolti da un’insolita berlina.
