Il male dilaga: dai ghetti di Scorsese ai mondi spielberghiani

Impreviste linee di convergenza. Inediti (finora) giochi di rimandi interni alla poetica dei due registi cinematografici più noti al mondo: due cineasti, Scorsese e Spielberg, ci hanno consegnato in questo primo scorcio di millennio una riflessione congiunta, allarmata oltre che allarmante, sull’etica che sorregge la leadership USA e con essa, una larga fetta dell’opinione pubblica statunitense del post (11/9). L’allievo Spike Lee segue dal canto suo le orme dei maestri e frequenta parallelamente il cinema di genere, riplasmandolo in prospettiva autoriale. Anche l’ottimo (Inside Man) è orientato in questa direzione: ritmo, messaggio politico solo in prima battuta secondario rispetto all’azione... e soprattutto, Cinema.
Ma torniamo pure ai ’padri’. Assai diversi per sensibilità e formazione, Spielberg e Scorsese sono stati lungamente considerati e studiati come due fenomeni a parte, due universi sensibili distinti e separati, con poco o nulla da spartire. E cosa potevano avere in comune il westerner e padre degli effetti speciali Spielberg e l’esponente di punta della gloriosa generazione di grandi filmakers provenienti dall’East Coast? L’uno interessato al racconto di avventure fantastiche e alle sue storie di formazione, l’altro tutto compreso nell’esplorazione e fine descrizione del suo angolo di mondo (da sempre connotato come girone infernale), intriso di una visione cinica e disincantata del tutto assente dalle prime opere del collega californiano.
Ma se prendiamo come pietre di paragone le due opere più recenti di ciascuno, (Munich) e (The Departed), anch’esse solo a prima vista diverse, ci pare affiorino con chiarezza alcune riflessioni di segno affine. La nuova cattiva coscienza del Paese viene a galla nel sempre più disilluso Scorsese, come pure nel già ottimista Spielberg, facendo emergere con uguale forza una visione d’insieme di rara e inusitata cupezza. La chiusa con l’arcobaleno di (E.T.), personalissima sigla dello “Spielberg Touch” che schiudeva al sorriso il finale, veniva del tutto soppiantata da quell’inquadratura della baia di New York, con le torri gemelle poste come fondali, che in Munich facevano da monito rispetto a qualsivoglia utopistica aspirazione (rilanciata dal dialogo finale) a veder trionfare le logiche del rispetto reciproco e del dialogo su quelle della prevaricazione violenta e imposta dall’alto. Non desta meraviglia che alla fine del viaggio, ad attendere l’eroe (curioso, l’attore Eric Bana era reduce dalle fatiche di (Troy) ...) non vi fosse lì più alcun lieto fine possibile.
Non esiste gloria in simili imprese, come si leggeva bene dallo sguardo stravolto di Avner mentre stringeva nella sua mano insanguinata quella dei suoi giovani ammiratori estatici. Lo stesso vale per la scena amarissima del funerale di Stato con relativa attribuzione della medaglia al valore postuma al personaggio di Di Caprio, girata da un quantomai crudele, sarcastico Scorsese. La vacuità della funzione in pompa magna, con gigantografia dell’invisibile talpa, non può non ricondurre a quanto il Paese riserva oggigiorno ai militari deceduti nelle guerre ’sante’ di Bush figlio.
Certo, dal canto loro i nauseati protagonisti scorsesiani non hanno mai brillato per disposizione ottimistica o candore, ma finora il loro autore non si era mai spinto tanto in là da sterminarli tutti, dopo averli utilizzati come pedine in un film che è come una sfida a scacchi con se stesso, un gioco.
E per altro verso, è per lo meno da quel fatidico 2001 di (A.I.) che il discorso spielberghiano ha abbandonato i toni della fiaba e preso quelli più foschi dell’apologo.
Spielberg apre (Munich) col particolare di una cancellata a cui si aggrappano delle mani anonime per scavalcarlo e portare al di là da esso morte e distruzione. In Scorsese non sarà sfuggito all’occhio smaliziato il corposo dettaglio scenografico della straordinaria scala contorta che conduce al dipartimento di polizia di Boston. La via della legge non segue percorsi diritti e lineari, ma scende a compromessi anche con i bassifondi.
L’eccezionale durata delle due pellicole si trasforma in strumento di rara efficacia dialettica nelle sapienti mani dei due straordinari (story-tellers) e dei loro più stretti collaboratori, responsabili dell’imprescindibile montaggio alternato, vettore di un racconto polifonico e stratificato. I due incipit a specchio, al fulmicotone, immettono immediatamente nel cuore del racconto, senza concedere requie allo spettatore. Si tratta di action-movies a tutti gli effetti, che si aprono però ampiamente a momenti di ariosa e profonda riflessione.
In modo particolare, la loro attenzione si è vieppiù concentrata, fino ad appuntarsi con precisione sul significato profondo del concetto di legalità e schiudendosi a domande che rimangono inevase.
Riflessioni parallele su cosa sia bene e cosa sia male per Scorsese, cosa sia giusto e cosa ingiusto in Spielberg.
Come Avner, anche William ha un vincolo irrisolto e un conto in sospeso con la propria religione e con la figura paterna.
“Noi abitiamo un mondo di segreti che si intersecano fra di loro. Viviamo e moriamo nei punti in cui questi segreti si incontrano” mette in bocca Spielberg al suo personaggio superbamente ambiguo, il contatto francese ’Papà’. Identica identità segreta per Nicholson in (The Departed). Coincidenza bizzarra su cui val la pena riflettere.
Non esiste fiducia possibile oggi, nemmeno nelle figure di riferimento, come testimonia esemplarmente la gelida scena della tripla uccisione a sangue freddo - filmata senza stacchi, ’alla Haneke’ - nella ridiscesa dell’ascensore.
Complessa e intricata è la fittissima rete che regola i rapporti tra personaggi, presentati in un’ottica sfuggente. Il lavoro sulla fotografia, allora, diviene attentissimo, meticoloso perfino e si fa carico di trasmetterci queste ambiguità. Il polacco Janusz Kaminski e il tedesco Michael Ballhaus sono fra i più valenti collaboratori abituali, rispettivamente di Spielberg (fin da (Schindler’s List) , 1993) e Scorsese (da (Fuori Orario), 1985). La pellicola impresse reca su di sé i mutamenti intervenuti perfino nell’orientamento morale dei due maestri, permanendo come una delle più personali cifre stilistiche dei due autori. Si gioca, naturalmente, su luci e ombre, più nettamente divaricate in Kaminski, più sfumate e ombrose in Ballhouse e su personaggi che diventano essi stessi ombra di sé stessi. Come Golda Meir, mentre segue nei minuti iniziali di (Munich) gli sviluppi dell’attentato all’hotel e medita già i suoi propositi di vendetta o l’apertura dedicata alla presentazione di Costello come personaggio mefistofelico, il Male in persona sotto le spoglie ingannevoli di un’ombra che porta via l’innocenza al bambino, così come in seguito ruberà l’identità all’altro figlio adottivo, il cadetto interpretato da Di Caprio.
La legge atavica di vendetta, la logica della violenza, del sangue che chiama altro sangue fino alle più estreme conseguenze è applicata come un’implacabile legge del taglione. Le missioni parallele di Avner e William conducono a stringere un patto col diavolo per riavere indietro la propria (identità perduta), tratto che accomuna i protagonisti dei due film. Le rispettive esistenze sono state spezzate e per ricucire insieme i brandelli di ciò che rimane, per costruire una possibile vita futura, viene sacrificato ogni rigurgito morale, mentre diviene vitale compiere atti empi, in un infinito gioco al massacro e al sacrificio.
In attesa della doppia sortita bellica di Eastwood. Ultimo rappresentante di una lunga tradizione di cantastorie che può permettersi ancora il lusso di uno sguardo che è già da un pezzo crepuscolare, ma contemporaneamente velato di dolce malinconia.
