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Il mandala infranto: riflessioni sul buddhismo nel cinema contemporaneo

Pubblicato il 28 marzo 2003 da Alessandro Izzi


Il mandala infranto: riflessioni sul buddhismo nel cinema contemporaneo

Il mandala è, nel contesto della cultura buddista, qualcosa di più di una potente metafora dell’impermanenza di tutte le cose. Esso è, prima di tutto, una pratica, un esercizio spirituale attraverso il quale il monaco impara a guardare la realtà per quello che essa è in realtà: un fenomeno passeggero, impalpabile e non racchiudibile all’interno di una forma data una volta per tutte. Quello che colpisce della pratica devozionale del mandala non è tanto il tempo che si impiega per la realizzazione dell’opera (spesso anni), quanto, piuttosto, il fatto che una volta che questa è ultimata il monaco, con un gesto perentorio della mano, lo distrugge.
Abbiamo utilizzato il termine “distruggere”, ma tale termine è quanto di più lontano da ciò che il monaco compie. E’ vero, infatti, che il mandala viene cancellato, ma questa cancellazione è piuttosto il risultato di un atto creativo che non di un atto di distruzione. Con il suo gesto, infatti, il monaco si rende consapevole della fugacità di tutte le cose e di se stesso. Tanto più grande sarà stata la pazienza e l’amore profusi nella creazione del mandala, tanto più forte sarà il gesto, tanto più significato il lascito nella vita spirituale del monaco che l’ha compiuto e, in conseguenza, a tutto il mondo di cui il monaco fa parte.
La distruzione del mandala è, allora, un atto costruttivo, la creazione artistica viene, sì, cancellata, ma ciò porta ad una produzione di senso per il monaco che lo compie.
Nella cultura occidentale, che nell’opera d’arte, ha sempre visto la produzione di un qualcosa in grado di sopravvivere all’autore che l’ha prodotta, il gesto votivo della distruzione del mandala, che, non dimentichiamolo ha forti valenze devozionali, solletica molto la sua curiosità. Se è vero, come afferma Bazin, che il cinema è la messa in scena della morte, allora, non esiste media più idoneo per rendere il senso ultimo della stessa pratica buddhista (a parte, forse, la musica che esiste nel solo spazio dell’esecuzione, cioè nel momento stesso in cui, esistendo, cessa di esistere). Non è un caso, allora, che il mandala sia centrale in due film che, in modi e tempi diversi si sono interessati alla cultura buddhista: Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci e Kundun di Martin Scorsese.
Già diverso è il modo in cui i due autori hanno affrontato il tema. La costruzione del mandala chiude in entrambi i casi la narrazione, ma tale somiglianza apparente rivela una totale differenza di fondo. Tanto per cominciare in Bertolucci la realizzazione del mandala occupa, con piccoli inserti, una minima parte del film, mentre la distruzione dello stesso è data nello spazio di un’unica brevissima inquadratura. In Scorsese, al contrario, la creazione del mandala occupa relativamente lo stesso spazio, ma la sua distruzione è data nello spazio di più inquadrature e in un arco di tempo sensibilmente più grande. Anzi, ad essere più precisi, la distruzione del mandala, occupa, nell’economia della pellicola molto più spazio di quello occupato dalla sua realizzazione.
Perché questa differenza così profonda di durate? Ci pare che sia propria in questa differenza a risiedere il senso poetico delle due pellicole. Nella decifrazione dei due film potrà soccorrerci allora la posizione diegitica degli episodi. Nel film di Bertolucci, infatti, la distruzione del mandala è evento posto a suggello del film. Si tratta dell’ultima inquadratura dell’opera ed è posta, oltretutto, alla fine di tutti i titoli di coda e, cioè, del tutto al di fuori della narrazione. Nel film di Scorsese, al contrario è evento centrale di forte valenza drammaturgica e narrativa. Esso è, infatti, suggestivamente montato in alternanza con la definitiva conquista del Tibet da parte della Cina e con il conseguente esilio del Dalai Lama, protagonista della pellicola. Il parallelo tra i due eventi è tale da generare immediatamente senso, ma sarebbe oltremodo errato leggere in quest’accostamento soltanto l’accostamento di due gesti distruttivi. E’ vero che da una parte assistiamo alla distruzione di un’intera nazione e dall’altra alla distruzione di una complessa raffigurazione artistica, ma, accanto a questo elemento c’è molto di più: la possibilità per il tibetano di ribaltare la sua sofferenza in pratica spirituale. Quando il Dalai Lama, parlando dei cinesi che sono stati causa di tante sue sofferenze, dice: “la gentilezza dei cinesi” egli non fa della facile ironia. I cinesi sono stati veramente gentili, per lui, perché con la loro azione hanno fornito a tutti i tibetani occasione di meditare, una volta di più, sull’impermanenza delle cose. E quanto più era grande l’amore per la propria patria tanto più grande sarà la sofferenza nel vederla sotto il giogo cinese, ma tanto più potente sarà la pratica spirituale che su di essa il tibetano potrà esercitare. Di più l’esilio cui il Dalai Lama è alla fine costretto non porta, e lo possiamo ancora oggi vedere, alla fine della filosofia e del pensiero tibetano. Al contrario, essa, schiacciata in patria dai terribili stivali di Mao (cui Scorsese dedica una significativa inquadratura) ha avuto poi modo di diffondersi ancor più fortemente in tutto il mondo che, proprio nello stesso periodo cominciava ad aprirsi a nuove esigenze spiritualistiche. Sicchè come la distruzione del mandala corrisponde ad una produzione di senso, così l’occupazione del Tibet, se vista in un’ottica più ampia della semplice esistenza individuale, è anch’essa produttrice di senso. Senso che nasce, però, dal profondo amore. Il Dalai Lama, che dapprima provava una certa avversione nei confronti dei cinesi, dapprima scopre che essi “sono uomini come lui”, poi impara ad amarli. Amare il proprio nemico è, nella logica buddista, una pratica molto forte. Kundun è, allora, il film di questa presa di consapevolezza, di questa scoperta interiore che tanto vicina ci pare alla carità cristiana.
Per Bertolucci, invece, l’opera porta lo spettatore in tutt’altre dimensioni. La sequenza della distruzione del mandala, posta all’esterno della narrazione, si ribalta, paradossalmente sulla narrazione stessa donandole un senso nuovo. Con questa inquadratura, ci pare, l’autore stabilisca un rapporto peculiare tra la propria opera e il mandala stesso. Come il monaco distrugge il mandala, così, con quest’inquadratura, l’autore quasi distrugge il proprio film. Il gesto di distruzione del mandala si ribalta quindi sul film ed esso, proprio in quest’ultima inquadratura, si prende il lusso di riflettere su se stesso denunciandosi, nei confronti dello spettatore, come opera d’arte soggetta all’azione del tempo e della morte. Molta critica, occupandosi del film, ha sottolineato come la contrapposizione cromatica tra gli esterni in India (ocra e arancio vivaci) e gli interni in America (grigio spento e uniforme) sia troppo schematica e banale. Alla luce di quest’ultima inquadratura, però, tale schematismo si rivela funzionale e intenzionale. Esso riproduce infatti le linee fortemente stilizzate e le contrapposizioni cromatiche fortemente schematiche di un mandala. Il film poi è attentissimo, nel corso della narrazione a denunciarsi costantemente come tale, dapprima nella carica eccessivamente affabulatoria della narrazione, poi nell’uso degli effetti speciali in chiave quasi ludica e mai credibile. Il parallelo mandala/film, quindi, pur chiarendosi definitivamente solo nell’ultima inquadratura, scorre costantemente sotterraneo per tutto il film. E’ questa a nostro avviso, un’operazione di altissimo mimetismo culturale. Il regista italiano, infatti, si immedesima profondamente, per quanto gli è possibile, nella cultura buddista e cerca di applicare tale immedesimazione nella sua arte. Sicchè il suo film si rivela essere, a differenza di quello di Scorsese, anche autocritico ed autoironico.
Potremmo dire, esemplificando, che la distruzione del mandala è, per Bertolucci, un gesto, mentre per Scorsese, un progetto.

[marzo 2003]


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