Intervista a Andrew Bujalski - Support the Girls
L’occasione è il London Film Festival, 62 esima edizione. Lo sfondo la suntuosa lounge allestista per la stampa nel centralissimo Mayfair hotel. Da poche ore nella capitale inglese, Andrew Bujalski, il quarantenne regista, sceneggiatore e attore nato a Boston si schiarisce la gola ed è pronto per le domande sul suo ultimo film Support the Girls distribuito da Magnolia. È stato definito "the Godfather of Mumblecore" ovvero il padrino di un sottogenere di film indipendenti che si focalizzano sul dialogo invece che sulla trama e puntano su uno stile attoriale naturalistico per descrivere le relazione interpersonali tra giovani ventenni/trentenni. La descrizione calza a pennello specialmente considerando le sue pellicole precedenti: Funny HaHa (2002), Mutual Appreciation (2005), Beeswax (2009), Computer Chess (2013), Results (2015). Il nuovo film sembra seguire i dettami della tipica indie rom-com maad uno sguardo più attento si rivela come un timido gioiello di girl power, mettendo al centro della storia una sfavillante Regina Hall.
Lisa Conroy (Regina Hall) è la manager di Double Whammies, uno sport bar che sorge al lato dell’autostrada, una sorta di Hooters con un pizzico di classe in più. Chioccia per le sue impiegate, che forma e protegge strenuamente, viene messa alla prova dagli eventi di una diabolica giornata. Riuscirà il suo ottimismo a risorgere dalle ceneri e quale sarà il futuro di un locale così maschilista ora che rischia di perdere la guida di una donna così combattiva?
Per iniziare la nostra chiacchierata, da dove nasce l’idea di base di questo film che hai scritto e diretto?
Ho vissuto per un certo periodo in Texas, ci sono questi locali vicino alle autostrade, e quando sono entrato in uno di questi, forse una decina di anni fa, non so che cosa mi aspettassi veramente, ma qualcosa mi ha stupito. Ed è rimasto dentro di me. Per anni ho pensato - forse c’è una storia che aspetta di essere raccontata, una storia estremamente e unicamente americana. Certo probabilmente sono dei posti volgarotti ma che offrono anche un’atmosfera confortante, vendono un’esperienza e quel senso di appartenenza. Ho pensato che fosse una bizzarra dicotomia tipicamente americana, ricca di contraddizioni. A volte mi dava un senso di tristezza. Sette anni fa ho presentato l’idea come una serie televisiva ma non è successo niente, e devo ammettere che mi sono quasi sentito sollevato. Non lavoro bene nel formato televisivo, preferisco storie che posso iniziare e terminare. Sono passati altri anni e l’idea era sempre lì, ancorata nella mia testa. Così ho pensato di risporlverarla e farla diventare un film. Ed eccoci qui.
Il tuo personaggio principale, Lisa, così materna e affettuosa con le sue impiegate, sei stato ispirato da esperienze personali nel portare sul grande schermo questa figura?
Non c’è una persona in particolare nella mia vita che assomiglia a Lisa, non ho mai incontrato il manager di uno di questi posti, ma sapevo che se avessi scritto di questo tipo di locali avrei dovuto trovare la prospettiva di qualcuno che la pensasse come me. Essendo un outsider non avevo il punto di vista di una giovane donna che lavora in questi locali e neppure quello di un cliente affezionato. Certo sarei molto curioso di vedere la versione di questo film dal loro punto di vista, ma sapevo che scrivendolo io avrei portato la prospettiva di un outsider. Lisa è questo, anche se passa tutto il suo tempo lì non fa parte di quell’ambiente, non è parte della sua cultura. Per quanto riguarda il suo lato materno e protettivo, penso che sia legato al tipo di personaggi che mi attragono di più, l’eterno ottimista, l’ottimista persistente che non si sente sconfitto neanche quando tutto intorno a se crolla, che crea i suoi guai proprio per il fatto di essere ottimista. E questa si è rivelata la direzione stessa del film, osserviamo questa povera donna messa alla prova dagli eventi, inciampare e rialzarsi in continuazione.
Cosa ha significato portare Regina Hall a vestire i panni di Lisa? È stato emozionante lavorare con lei, il suo nome era comparso quasi istantaneamente tra le potenziali attrici per la parte di Lisa. Siamo stati molto fortunati ad averla come parte integrante del nostro progetto vista la sua carriera e la quantità di ruoli che ha rivestito negli ultimi tre anni. La tempistica ha giocato a nostro favore. Ci siamo incontrati in un piccolo bar proprio dopo la fine delle riprese di Girls Trip (Il viaggio delle ragazze, 2017), mi invitò alla festa di chiusura del film a New Orleans, una storia che racconterò ai miei nipoti! Durante quel breve incontro, sorseggiando caffe, iniziai già a proiettare il personaggio su Regina e pensando a tutte le sfaccettature che essa poteva portare al personaggio, cominciai a sentirmi elettrizzato all’idea di averla come protagonista del film. Certo non ero cosciente del successo che avrebbe avuto quell’incontro, si tratta sempre di scommesse e fa paura lavorare con qualcuno per la prima volta. Posso dire che Regina ha sorpassato ogni aspettativa, a tutti i livelli, non avrei potuto desiderare una collaboratrice migliore di lei. Ha reso il mio lavoro estremamente facile.
Parlando della fase di scrittura, tutti i personaggi e i dialoghi sono frutto della tua immaginazione o hai fatto della ricerca sul campo?
Si effettivamente mi sono documentato, ho parlato con delle vere cameriere di questi locali e cercato di cogliere più dettagli possibili. Molto è frutto della mia immaginazione, ma anche di ciò che deriva dalla riflessione sul tipo di posto in cui ci troviamo e sul concetto che volevo trasmettere. Gran parte della storia parte dalle mie supposizioni. Sono andato spesso a pranzo in questi locali nella fase iniziale di scrittura, cercando di non far trasparire la mia identità di sceneggiatore, ma è parte della procedura di questi posti l’interazione con il cliente, chiaccherando e flirtando con esso. Non sono molto bravo a ricevere questo tipo di attenzioni, tuttavia sono riuscito a parlare con uno dei proprietari che generosamente mi ha concesso di intervistare le sue dipendenti. Quindi si, ho fatto della ricerca.
C’è stato un ostacolo difficile da superare nella fase di produzione del film?
Certo. Magari fosse solo uno! Ma quello che ricordo meglio è legato alla location e all’atmosfera che si è creata sul set. Per uno strano scherzo del destino, la location dove abbiamo girato il film era un catena di questi ristoranti che è stata chiusa, era deserta e abbiamo potuto ricreare il nostro mondo senza interferenze altrui. Tuttavia, proprio di fianco a essa sorgeva un altro di questi locali ancora in attività. Eravamo tutti molto intimiditi da questa ingombrante presenza, perchè ci sarebbe bastato fare qualche metro per avere di fronte agli occhi l’esatta realtà di ciò che stavamo cercando di replicare. Durante tutte le riprese c’è quindi sempre stato questo sentimento di sottofondo: non possiamo competere con la realtà, ogni dettaglio in quel locale è permanente. Ci siamo dovuti arrendere all’evedidenza dei fatti, in fondo non stavamo girando un documentario. In parte mi fa soffrire questa idea, perchè come regista spero sempre di ottenere quel risultato così naturalistico da sembrare un documentario. Ma questo era un tipo di film diverso, con una motivazione diversa.
Il film è una commedia molto sobria e controllata, mi chiedo se le scelte sulla fotografia riflettano questo tono sottomesso?
Sì, penso di sì. Il direttore della fotografia è Matthias Grunsky, abbiamo girato sei film insieme e ci conosciamo molto bene. Comunichiamo attraverso grugniti, ormai! A questo punto penso a lui come l’estensione dei miei stessi occhi. Come hai definito la commedia? Sobria e controllata, si credo che siano gli aggettivi giusti, si è esattamente come definirei il mio tempo sulla Terra (ride).
Il film parla di una famiglia allargata sul posto di lavoro, o almeno questo è il sentimento che traspare, come regista condividi questa etica lavorativa e come ti sei confrontato sul set con le tue attrici?
Personalmente ho una soglia molto bassa di sopportazione per l’ansia e lo stress e per le persone che portano ansia e stress sul set. È per natura un ambiente stressante, lavori per tantissime ore con le stesse persone, le troupe cinematografiche sono strane, è una sorta di colonnia estiva e tu speri che tutti si stiano divertendo. In genere credo che tutti si siano sentiti al sicuro e protetti sul set. Forse la parte più difficile da superare è stata questa scena notturna un po’ scabrosa, proprio per la natura stessa della scena le ragazze sul set dovevano sentirsi vulnerabili. Avevamo tante comparse, persone nuove e sconosciute, è stata una delle scene più difficili. Abbiamo cercato di fare il nostro meglio, guardando tutti negli occhi e facendo capire che tipo di comportamento avremmo tollerato o non tollerato. Penso che per la maggior parte sia andata bene. Ma è stata una notte difficile, ricreare quella crudezza. Ed è lì, è presente nel film.
Per concludere, se posso citare uno dei tuoi personaggi, Macy, e la sua frase: "C’è un enorme differenza quando il tuo capo tiene a te". Riflettendo su questa logica, fa la differenza sul set l’essere affezionati ai propri personaggi e di conseguenza agli attori che li interpretano?
Non c’è modo per me di rispondere a questa domanda senza congratularmi con me stesso, devo assolutamente affezzionarmi ai miei personaggi e allo stesso modo agli attori, è per questo che non sono uno scrittore perchè ho bisogno di quell’energia che scaturisce dal contatto umano. Anche se ti dedichi a una storia oscura devi investire con amore. E questo mi spaventa, andando avanti nella mia carriera e diventando adulto, perchè ho iniziato con tutto l’entusiasmo e la spensieratezza di un uomo che ama i film prima di tutto. Ma c’è sempre la paura che quando diventa la tua carriera le scelte non sono piu motivate dal mero amore per l’arte ma dal pagare le bollette. Fin ora non è stato così.
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