INTERVISTA AL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA GHERARDO GOSSI
Parliamo dell’esordio: dalla formazione con Gianni Rondolino all’inizio della passione per il cinema e la fotografia.
Tra i 16-17 anni mi sono appassionato alla fotografia, scattai le prime fotografie con la pellicola in bianco e nero, ora si direbbe in “analogico”. Comprate le bacinelle per sviluppare e l’ ingranditore per stampare ho messo in piedi una piccola camera oscura in cui sviluppai e stampai gli scatti fatti durante le manifestazioni di piazza e i concerti rock e jazz che seguivo con passione e seguo tutt’ora. Era il ’77: erano gli anni della creatività al potere!! Vivevo la fotografia come testimonianza sociale. Durante gli ultimi anni di liceo, nasce anche l’amore per il cinema. D’estate non perdevo occasione di inseguire film fuori programmazione: dagli esordi di Stanley Kubrick o ai film di Wim Wenders sino ai grandi classici del cinema americano ed europeo, la frequentazione dei cinema d’essai torinesi ha contribuito a far crescere l’amore di una vita. Uscito dal liceo mi son iscritto alla Facoltà di Lettere con indirizzo artistico, si studiava cinema con il Prof. Gianni Rondolino docente nonché critico cinematografico. Venne fondato in quegli anni “il Movie club”, cineclub dove si formò un gruppo di giovani che sarebbe stato importante per il futuro del cinema italiano: Roberto Forza, Guido Chiesa, Daniele Gaglianone, Alberto Barbera, Roberto Turigliatto, Steve Della Casa, ecc ....
In quel periodo misi piede per la prima volta su un set cinematografico cogliendo al volo l’opportunità di un lavoro come assistente ai costumi. Conobbi Peppino Rotunno fotografo di un documentario Coucou bazar su Jean Dubuffet, pittore e scultore francese, massimo esponente dell’”art brut” dalla fine degli anni ’70 . Ho alimentato la mia formazione da autodidatta, con piccole collaborazioni e studi sulle riviste di settore. In quegli anni nascevano le televisioni private ed ebbi la fortuna di lavorare in un emittente il cui direttore, grande tecnico e appassionato, ci ha formati sia nella ripresa che nel montaggio e nell’illuminazione. Finita quell’esperienza ho lavorato come assistente operatore di Claudio Meloni, direttore della fotografia torinese, mio unico e vero maestro che amo ricordare con grande riconoscenza e affetto. In seguito per affacciarmi al mondo del lavoro con continuità, ho formato una piccola casa di produzione con un gruppo di amici. Questo è stato il mio trampolino di lancio. Nei primi anni Novanta ho esordito con Il Caso Martello di Guido Chiesa, girato nella provincia di Cuneo. L ’amicizia con Guido continua fino ad ora dai tempi dell’Università.
Differenze tra serie televisiva, lungometraggio e cortometraggio per quanto riguarda scelte stilistiche e metodo di lavoro personale.
La serie televisiva è un prodotto industriale dove i committenti come Sky, Amazon, Netflix, Rai e Mediaset sono i principali referenti. In questi lavori, lo sguardo dell’autore è sempre più contenuto. La serialità ha tempi di lavorazione lunghi, 14 e più settimane di ripresa. Bisogna fare delle scelte fotografiche molto precise nella fase di pre-produzione. Si girano all’incirca 8 min. di montato al giorno. I tempi, dunque, sono densi. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi molto preparati come Lucio Pellegrini e Daniele Vicari, con cui, riuniti i giusti collaboratori, ho fatto esperienze molto gratificanti.
Nel lungometraggio si privilegia la qualità alla quantità, i tempi di lavorazione possono essere più dilatati e si producono una media di tre, quattro minuti di montato al giorno. Emma Dante, regista con cui collaboro dal suo primo film, ad esempio, ha un approccio più teatrale al lavoro che trasferisce nella fase di preparazione, lunga e intensa con molte prove con gli attori e la macchina da presa: gira, poi, con grande rapidità.
Nel cortometraggio, che è un prodotto che promuove la bravura degli autori emergenti, i tempi di gestazione sono molto brevi, rapidi e spesso con un budget esiguo.
Il sodalizio coi registi Guido Chiesa, Daniele Vicari e Daniele Gaglianone. Come avviene la scelta dei film con cui collaborare per la fotografia. Cosa apprezzi, in particolare, del loro modo di lavorare ?
Sono per lo più delle scelte umane. Le storie e i lavori arrivano di conseguenza. Con loro c’è una comunione di passioni: la musica, il cinema, la narrazione di storie che ci appartengono. Con Guido Chiesa ho imparato l’importanza della preparazione dei film, è un sodalizio che è andato avanti per anni e mi auguro continui nel tempo: con lui ho girato Il Partigiano Johnny , un lavoro che ha segnato una svolta nella mia carriera, in cui ho conosciuto la Fandango una delle più importanti case di produzione italiane con cui collaboro da anni. E’ un film che unisce l’agilità de documentario con la narrazione sociale e il film storico, in costume. L’ultimo film che ho girato con Guido Chiesa è stato Io Sono Con Te ” nel 2010, in Tunisia. Dopodiché la sovrapposizione di impegni ci ha allontanati professionalmente, ma la nostra amicizia è sempre viva.
Con Daniele Gaglianone, abbiamo girato sia documentari che film. Il nostro primo film, I Nostri Anni , in bianco e nero, è un lavoro sulla resistenza visto con gli occhi della contemporaneità. Anche con Daniele Vicari ci siamo incontrati sulla stessa tematica sul documentario a episodi Partigiani . C’è decisamente una visione del mondo che ci accomuna, è da 20 anni che lavoriamo insieme.
Com’è cambiato, tecnicamente, il modo di lavorare dagli anni ’80 ad oggi?
Con le nuove tecnologie, sono cambiati soprattutto i tempi di lavorazione. I supporti sono molto più veloci, oggi. Noi autori della fotografia non siamo più i principali depositari della riuscita tecnica di un film, ma l’immagine di un film è sempre più il risultato di un accurato lavoro di gruppo sotto la guida del regista. Dobbiamo coniugare, con i vari reparti, la “visione” del film con tempi molto più ridotti rispetto ai miei esordi. Per esempio le macchine da presa attuali hanno una sensibilità tre, quattro volte maggiore rispetto alla pellicola, richiedono quindi meno luce e il risultato visivo si può vedere all’istante.
Ha mai valutato l’ipotesi di trattare in bianco e nero la fotografia di “Il Partigiano Johnny”?
No, mai. Nonostante mi sia ispirato ai documentari in bianco e nero girati da Don Giuseppe Pollarolo durante la resistenza, abbiamo scelto un’immagine ad alto contrasto fortemente decolorata usando il processo NR della Technicolor, che a nostro avviso restituiva le emozioni di quei momenti. Rimpiango di non averlo girato con un formato panoramico: gli scenari che lo meritavano. Il film a avuto un destino faticoso nelle sale in quanto trattava un tema ancor oggi ostico.
“Il Partigiano Johnny”: il rapporto con la fonte letteraria come punto di partenza per la fotografia .
La forza del film è di aver adattato con precisione il romanzo, scelta scrupolosa degli sceneggiatori che mi ha aiutato nel ricreare le atmosfere fotografiche del film.
Alla luce della sua carriera cinematografica, c’è stato un film che ricorda per la particolare difficoltà della sua realizzazione?
Ogni film ha le sue difficoltà, oltre che per l’interpretazione delle idee visive del regista, anche per le scelte produttive che comporta. Diaz , per esempio, è stato girato per la maggior parte in Romania e in minima parte in ’Italia con un larghissimo uso di vfx ad integrare i mondi, con tutte le complicazioni annesse. Nel primo film di Emma Dante, Via Castellana Bandiera (2013) sono stato coinvolto una settimana prima dell’ inizio delle riprese e ho dovuto immergermi rapidamente nella storia e nelle volontà della regista. Nel caso di Da zero a dieci , film di Luciano Ligabue, una delle difficoltà maggiori è stata girare per 10 settimane sempre di notte, nelle brevi notti d’estate della riviera romagnola , per fortuna il regista con grande umiltà e con le idee molto chiare è stato di grande aiuto. Ogni volta è una sfida e bisogna trovare il modo migliore per tornare vincitori.
Attrezzatura utilizzata in “18 Regali”. Come ha reso, fotograficamente parlando, la drammaticità della tematica affrontata?
Si dal primo momento è stata una lotta contro il tempo, dalla realizzazione all’uscita in sala avevano solo 5 mesi. Anche qui abbiamo utilizzato molto i vfx, gli effetti visivi, per integrare gli interni della casa ricostruita in teatro di posa con gli esterni dal vero. È un film iperrealista dove abbiamo voluto smorzare la drammaticità del tema con una fotografia solare e colorata per raccontare l’amore tra madre e figlia, attraverso il gioco di flashback e flashforward della storia. In questo il regista, Francesco Amato, mi ha dato importanti stimoli creativi. Con scenografia e costumi abbiamo portato avanti un progetto visivo capace di raccontare una storia non solamente di dolore. Più volte, il padre reale della protagonista, ci ha confortato con la sua presenza sul set. Le difficoltà tecniche sono state per lo più date dalla complessità degli interventi in vfx curati da Massimo Cipollina, con cui abbiamo lavorato fianco a fianco.
In “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante com’è stata studiata l’architettura delle luci? Difficoltà riscontrate?
A differenza di 18 regali l’appartamento era dal vero e non ricostruito in teatro. Il realismo che ricerca Emma Dante nella sua messa in scena ci ha portato a lavorare in un palazzo periferico di Palermo in riva al mare, in cui l’appartamento doveva essere uno de protagonisti dei film, che si modifica lungo la storia. Ho illuminato per lo più con proiettori ARRI skypanel lavorati, kino flo, e un proiettore HMI da 9Kw per riprodurre il sole estivo. Anche in questo film i vfx sono stati un valido supporto, soprattutto nella terza parte, per raccontare i cambiamenti del mare che si vedono dalle finestre e dal balcone, l’invecchiamento esterno del palazzo e la sovrapposizione della piccionaia ripresa da un altro palazzo. L’ostacolo da superare essendo un’ambiente dal vero è stato di mantenere la continuità di luce . Ci ho messo un po’ a convincere la regista dell’efficacia dei vfx, alla fine però si può dire che la scommessa è stata vinta.
Anticipazioni sull’ultimo lavoro?
L’ultimo mio lavoro s’intitola Il Muto Di Gallura , ambientato a metà dell’800, prodotto da Fandango con la regia dell’esordiente Matteo Fresi. Abbiamo girato in 36 giorni in Sardegna e racconta di una faida familiare che si è prolungata per sette anni. La preziosa collaborazione dei locali ed un gruppo coeso ci hanno aiutato ad affrontare con semplicità un lavoro difficile. Nei prossimi mesi terminerà la fase di montaggio, sarà pronto per la prossima estate.
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