Intervista a Claudio Giovannesi - La paranza dei bambini
Dopo l’Orso d’Argento come miglior sceneggiatura alla 69esima Mostra del Cinema di Berlino, il film di Claudio Giovannesi, Piranhas - La paranza dei bambini, viene presentato anche al London Film Festival nella sezione Thrill, accanto a Il traditore, di Marco Bellocchio. Due storie di mafia, che non potrebbero essere più diverse tra loro, ma che entrambe sfruttano il costante e a volte morboso interesse verso la messa in scena della criminalità organizzata.
Descritto come uno "Scarface minorenne" nelle sinossi inglesi, Nicola (l’esordiente Francesco Di Napoli) è il protagonista della storia adattata dal libro omonimo di Roberto Saviano ed edito da Mondadori nel 2016. Napoli, Rione Sanità, un gruppo di adolescenti viene a patti con la cruda realtà che li circonda. Divisi tra bene e male, dovranno scegliere il proprio percorso: la guerra tra quartieri, il pizzo, le armi, i soldi facili da un lato; i sogni di grandezza, le corse spensierate in motorino e i primi amori dall’altro.
Cogliamo l’opportunità della presenza di Claudio a Londra per parlare delle scelte dietro al successo della pellicola.
Iniziamo dalla sceneggiatura, osannata a Berlino e frutto della collaborazione con Maurizio Braucci.
Come avete adattato il romanzo di Saviano per il grande schermo?
Claudio Giovannesi: «Ho incontrato Roberto Saviano sul set di Gomorra - la serie di cui ho diretto due episodi. Dopo aver letto il libro, la mia idea era quella di allontanarmi dalla serie tv, che parla della lotta per il potere ed è più un crime, un lavoro di genere. Per questo film, invece, volevo fare un lavoro che si focalizzasse sulla perdita dell’innocenza, sul racconto dei sentimenti, trattando i personaggi come se fossero non semplicemente dei criminali ma prima di tutto degli adolescenti, i nostri figli, i nostri fratelli. È una cosa che ripeto spesso. In questo senso la sceneggiatura è diversa dal romanzo, che è proprio un racconto sulla lotta per il potere, di conflitto. Non c’è tanto sull’anima dei ragazzi, è più di lotta e di conflitto. Questa linea di pensiero è stata immediatamente condivisa sia dallo sceneggiatore (Maurizio) che dall’autore del libro (Roberto). Messo in chiaro questo abbiamo lavorato seguendo lo spunto iniziale. I cambiamenti che il romanzo ha subito sono stati in funzione di questa idea, che è stata condivisa come punto di partenza».
Quale è il senso di responsabilità associato al portare questa storia al di fuori dell’Italia, quale messaggio traspare in questi paesi occidentali che spesso hanno iconizzato e mitizzato la realtà che stai raccontando?
C. G.: «Il film vive di una doppia identità. Il film che abbiamo fatto noi è un racconto di formazione, una storia sulla perdita dell’innocenza e una descrizione iperrealistica di una scelta che fa un adolescente. Ci sono dei luoghi in occidente dove i ragazzi possono scegliere se fare una carriera criminale. In luoghi dove non c’è il lavoro la criminalità organizzata propone un’alternativa. Per noi era un discorso iperrealistico, parlando di Napoli parlavamo del mondo, dei problemi dell’occidente, parlavamo del problema della criminalità organizzata. Un problema che affligge tanti altri posti nel mondo e spesso la scelta criminale è una necessità. Una scelta che si prende perchè non c’è alternativa, perchè se lo Stato è assente non ci sono alternative. Questo per noi è stato al centro della realizzazione del film, che non è un film di condanna o di denuncia.
È un film in cui si racconta di un percorso che poi non ha via d’uscita. Perchè lo sanno pure i criminali che non c’è via d’uscita. I criminali non si divertono a fare i criminali. Questo è il film. Ed è un racconto universale.
Poi succede che, all’estero, viene o percepito o venduto come un "mafia movie", perchè noi la mafia la esportiamo come la moda, è un brand come Valentino, come la Ferrari. Questo contribuisce alla diffusione del film.
Il film è una specie di cavallo di Troia. Perchè è qualcosa che apparentemente sembra un film di genere, in realtà è una riflessione sull’anima di un adolescente. E va bene così».
Perchè hai scelto attori esordienti per i tuoi protagonisti?
C. G.: «Primo perchè non esistono attori professionisti a sedici anni, grazie a Dio! Poi perchè portando ragazzi che vengono da quartieri in cui queste cose accadono, avevamo la possibilità di apportare un maggiore realismo alla storia. Tante sequenze, come il furto dell’albero di Natale, me le hanno fatte vedere loro, è stata una ricerca. Tu raccontavi delle esperienze, delle storie che loro avevano visto in prima persona. Ovviamente sono tutti ragazzi onesti, però con una provenienza di quel tipo. Magari i loro coetanei avevano fatto scelte del genere, e loro ne avevano avuto un’esperienza che non è un’esperienza diretta. Quelli che Maurizio Braucci chiama prossimi e contigui. Quello è il cast. Cioè trovare una misura nella vicinanza. Ovviamente non prendere dei criminali, che sarebbe stato impossibile, forse anche immorale, ma trovare una misura precisa nella vicinanza. Questo l’attore non te lo da».
Nicola, vuole essere portatore di cambiamento ma finisce per abbracciare gli stessi metodi da cui voleva emanciparsi. E dunque più vittima o carnefice ai tuoi occhi?
C. G.: «Entrambe le cose. Questi ragazzi desiderano le stesse cose che desiderano i loro coetanei, i coetanei borghesi. Nella società dei consumi tu desideri degli oggetti che sono costosi, desideri un’apparenza. Sono cose che riguardano il nostro presente. Lì, però, l’unico mezzo che i ragazzi hanno per ottenere ciò che desiderano è attraverso la criminalità, attraverso la pistola. La metafora di Saviano è la pistola come lampada di Aladino. Il mio protagonista è un idealista, è uno che vuole portare il bene nel quartiere, solo che non ha gli strumenti per capire il sistema. Si chiama proprio sistema quello della criminalità, e quindi le sue azioni sono circoscritte all’interno di un sistema. Un sistema da cui non c’è via d’uscita. In un luogo diverso probabilmente Nicola avrebbe fatto del bene. In quel contesto la sua scelta è l’unica possibilità di crescita».
Questo è il tuo terzo film legato all’adolescenza, al genere coming of age, che cosa ti spinge a raccontare queste storie? Senti una affinità particolare verso questi personaggi?
C. G.: «Intanto spero di fermarmi! Spero di non farne un quarto. Quando ho fatto il secondo dicevo, ora basta. Invece no, ne ho fatto un’altro, non si sa mai. Comunque sono delle storie in cui racconti dei ragazzi che devono fare una scelta e capire cosa è il bene e cosa è il male. È una cosa che gli adulti, si presuppone, abbiano già fatto. La seconda cosa è che racconti un’età della vita in cui i sentimenti vengono vissuti in maniera assoluta, l’amore e l’amicizia sono qualcosa per cui si vive o si muore. Questo rende il tutto estremamente cinematografico, ma anche reale. Il motivo principale, poi, è il discorso morale. Hai sempre a che fare con l’innocenza, anche quando racconti delle scene criminali, anche quando metti in mano le armi, anche quando fai vedere dei reati. Questi reati, che per la legge sono reati (ma io non faccio il giudice), hanno qualcosa a che fare con il gioco e con l’incoscienza. Questo sentimento te lo dà solo quell’età. Se tu fai vedere dei quarantenni che giocano con le armi è la realtà. Se fai vedere dei ragazzini che giocano con le armi riconosci una poesia, una dolcezza, che è tragica».
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