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Intervista ad Aoife O’Kelly, regista di "Walking with shadows"

Pubblicato il 10 ottobre 2019 da Cristina Canfora


Intervista ad Aoife O'Kelly, regista di "Walking with shadows"

Lagos, Nigeria. Ebele Njoko ha passato la sua vita dietro a un paravento, in cerca dell’accettazione e dell’amore della sua famiglia. Trincerato dietro l’immagine fittizia di Adrian Njoko, padre, marito e fratello perfetto.
Quando il passato torna a bussare alla sua porta, il mondo dorato che Adrian ha costruito crolla pezzo dopo pezzo, lasciandolo incapace di controllare le conseguenze di una rivelazione inaspettata.
Una storia che parla del viaggio interiore di Ebel/Adrian, costretto a nascondere la sua vera identità per sfuggire al giudizio spietato della società che lo circonda. Un film sull’omofobia, ancora un tabù in Africa, e sulla ricerca dell’agognata libertà d’espressione.

Walking whit shadows è il titolo del primo film di Aoife O’Kelly, scrittrice e regista irlandese che risiede a Londra. Nel 2016, completati gli studi alla Goldsmith University, inizia la sua carriera a pieno ritmo nell’industria del cinema, dopo numerosi anni di gavetta in diversi ruoli (montaggio, sceneggiatura e produzione). Il film che la vede esordire in contemporanea come sceneggiatrice e dietro la macchina da presa, è l’adattamento dell’omonimo libro di Jude Dibia, pubblicato nel 2005 e vincitore del Kultur Prize in Svezia.

Aoife è emozionata e grata di questa opportunità che il London Film Festival rappresenta per la sua pellicola. Un ottima piattaforma di lancio nel mercato internazionale. Dopo una stretta di mano e un dolce sorriso cominciamo l’intervista.

Parlaci del tuo primo lungometraggio, perchè hai deciso di adattare per il grande schermo proprio questa storia?
Tutto è iniziato grazie a Funmi Iyanda (la produttrice) che, dopo aver visto il mio cortometraggio Lula (2017), ha deciso di contattarmi e farmi leggere il libro. Lula racconta la storia di una giovane sposa di un combattente della resistenza polacco in fuga dalla Gestapo. È incinta e costretta a prendere una straziante decisione: chi proteggere dall’attacco dei tedeschi, il marito o il figlio non ancora nato? Il libro di Jude parla proprio di un uomo e della sua scelta. Ebele, come Lula, si trova di fronte a un bivio che cambierà per sempre la sua esistenza. Da diverso tempo Funmi era alla ricerca di un regista che potesse dar voce a Ebele ma non era riuscita a trovare la persona giusta. Lula ci ha fatto incontrare, e dopo essermi immersa nelle pagine del libro di Jude ho capito instantaneamente di avere la sensibilità necessaria per imbarcarmi in questa avventura.

Dalle parole alle immagini, come sei riuscita a trasportare sullo schermo i personaggi della tua sceneggiatura?
Il mio tipo di scrittura è molto visivo, non è stato difficile dare vita a questi personaggi. Chiudendo gli occhi erano già lì, davanti a me. Sono pienamente soddisfatta del mio cast. Non avevo dato dei volti specifici o pensato a degli attori in particolare. Ciò che più conta per me è riconoscere lo spessore emotivo del mio personaggio sul volto dell’attore e la facilità con cui esso si lascia trasportare da queste emozioni. Certo ci sono sempre dei compromessi da fare per via dei ritmi pressanti delle riprese, della realtà che ti circonda in un paese straniero. Ho visitato in prima persona numerosissime location, anche perchè le idee che avevo in fase di scrittura si sono dovute ridimensionare e confrontare con le scelte logistiche nel territorio nigeriano.

Avevi già visitato la Nigeria?
No è stata la mia prima volta in assoluto! E sono rimasta positivamente colpita dalla qualità degli attori in questo paese. Infatti la Nigeria investe tantissimo nell’industria del cinema. Ci siamo trovati nel cuore di quella che è soprannominata Nollywood - ovvero la versione africana di Bollywood. Tutti i miei attori sono delle superstar nel loro paese. Non posso che essere grata per questo. Dirigerli è stato un vero onore.

È stato difficile per te rendere appetibile al pubblico un outsider come Ebele, interpretato da Ozzy Agu?
Ebele cerca ciò che tutti noi cerchiamo, l’accettazione. Non c’è niente di più universale di questo. Tutti vogliamo l’amore e il supporto dei nostri cari, sentirci protetti e capiti. È facile identificarsi e riconoscere questo sentimento. Con il film, tuttavia, ho voluto sottolineare non solo il suo punto di vista, ma anche quello di sua moglie (Zainab Balogun), per far comprendere le ripercussioni che le nostre decisioni hanno sulle vite di chi ci circonda.

Nella tua vita, chi è la guida e il pilastro a cui non potresti rinunciare?
Mia mamma sicuramente, i miei genitori! Non è semplice trovare supporto quando intraprendi una carriera così incerta come quella del mondo del Cinema. Seriamente, chi prenderebbe a cuor leggero l’affermazione di una figlia che di punto in bianco ti dice: Mamma vado a girare un film in Nigeria! Il loro eclettismo per quanto riguarda i generi cinematografici mi ha forgiato sin da piccola. Io guardo tantissimi film, e questo anche grazie a loro. Poi i miei ex colleghi di Università. Siamo rimasti in ottimi rapporti, ci supportiamo a vicenda.

Quali film hanno influenzato questa tua prima pellicola?
Come ho detto guardo assolutamente di tutto. Dai film d’azione come James Bond e Arma Letale o Die Hard, ai grandi classici americani. Per questo film in particolare direi Shame di Steve McQueen. Il modo in cui il protagonista viene osservato senza giudizio. Ecco ambisco a questi livelli di veridicità e compassione.

Hai progetti per il futuro dopo la presenza al London Film Festival? E cosa porterai con te di questa prima esperienza da regista?
Il film per adesso non è presente in altri festival ma cerchiamo di rappresentarlo al meglio qui a Londra, poi chissà che non venga opzionato in altri paesi. Sono in trattativa per un altro lungometraggio, più vicino a casa, infatti sarà ambientato in Irlanda. Walking with shadows mi ha insegnato il valore di lavorare in un team affiatato, la regia è un lavoro di squadra, ho sicuramente stretto conoscenze che porterò con me in questo nuovo progetto. Fiducia e complicità sono le parole che più rappresentano questa mia esperienza nigeriana.


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