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Intervista a Mario Martone

Pubblicato il 18 maggio 2004 da Simona Morgantini


Intervista a Mario Martone

Fra qualche giorno vedremo sulla scene Edipo a Colono, lo spettacolo che prosegue la ricerca iniziata con Edipo Re, ai tempi in cui lei dirigeva il Teatro Argentina di Roma. Il fatto che lo spettacolo verrà rappresentato al Teatro India di Roma risponde a una sua scelta precisa?

Sì, si tratta della realizzazione di un progetto che ho potuto portare a termine solo ora. È un lavoro che verte su una specifica ricerca sullo spazio. Con Mimmo Paladino, autore delle scenografie (che vinse tra l’altro per questo spettacolo il premio Ubu), decidemmo di rappresentare l’Edipo Re al Teatro Argentina modificando l’assetto complessivo del teatro. La platea venne sgombrata dalle sedie e il pubblico seguiva l’azione dall’alto dei palchetti. Questo rispondeva ad esigenze specifiche: volevamo indicare nella platea sgombra al centro l’”agorà”, la piazza. Una piazza devastata dalla peste. Un’agorà fatta da emarginati, dai ceti sociali esclusi dalle direttive dei potenti. Per questo inserimmo simbolicamente anche extracomunitari. Il palcoscenico invece era la sede privilegiata del potere, il “teatro” governo dei potenti e delle loro azioni. C-U: Quindi sono stati fatti riferimenti allo scenario politico attuale...

MARTONE: Principalmente mi è interessato il rapporto politico con il testo mentre generalmente di Edipo si sottolinea l’aspetto esoterico e religioso. Ho voluto mettere l’accento su quello politico. Tebe è la città chiusa della tirannia e della peste e il teatro, quello all’italiana dell’Argentina, che è uno spazio chiuso, consentiva di dare vita a quest’immagine claustrofobica. A Colono invece, demo di Atene, c’è la democrazia: di qui la scelta del Teatro India che offre uno spazio aperto. Simbolo di una città “aperta”, il coro è fatto dagli spettatori: il coro si “identifica” con lo spettatore. Con l’arrivo della guerra, la democrazia si trasfigura e rimangono solo le forme esteriori di essa.

Anche qui c’è un riferimento all’attualità delle cronache di guerra?

MARTONE: Non si può parlare di riferimento diretto. Non si tratta di attualizzazione di un testo. Il rapporto con il testo avviene nel rispetto ortodosso del testo classico. Semplicemente si colgono somiglianze con i fatti contemporanei. Come sempre avviene quando si affrontano i classici.

C-U: Lei è stato il direttore del Teatro Argentina. La sua direzione artistica è stata importante nella recente storia teatrale italiana perché ha promosso un modo di fare teatro, quello di ricerca, su un palco che accoglieva solo un certo tipo di tradizione, quella del circuito dei Teatri Stabili. Insomma, si ruppero degli argini e i due tipi di teatro sembravano contrapposti.

Era mia intenzione eliminare la frattura esistente fra due modi di concepire il teatro. Frattura che inibiva uno scambio culturale e una crescita dei linguaggi espressivi.

In effetti in quegli anni si erano creati due tipi di teatro, due modi diversi di concepire il teatro e fare cultura, che sembravano contrapposti come corporazioni medievali. Ciascuno con i propri personaggi-guru, e con critici e docenti universitari al seguito fedele. E ciascuno con il proprio pubblico, sempre elitario, in un caso e nell’altro. Corporazioni abbastanza chiuse e in competizione fra loro.

Credo che la frattura tuttora esista ma credo anche nel fatto che se gruppi di diversa appartenenza artistica si siano posti sotto gli occhi di tutti, abolendo forzatamente certe differenziazioni di pubblico, possa avere aiutato a far crescere il teatro e la sua fruizione. Oggi il pubblico senza distinzioni può apprezzare spettacoli come la Genesi di Raffaello Sanzio, spettacoli che esaltano la scrittura scenica e spettacoli più tradizionali che fanno maggiore riferimento a una scrittura drammaturgica. In effetti però la frattura fra scrittura scenica e scrittura drammaturgica non è che si sia risolta ...la drammaturgia contemporanea in Italia langue. E troviamo o spettacoli che vengono dal territorio della ricerca ancora tutti basati sul linguaggio visivo o spettacoli su testi classici più o meno ortodossi. Difficilmente troviamo testi di autori contemporanei che affrontino temi della contemporaneità, della realtà attuale. Ma mi sembra che qualcosa si stia muovendo. E’ un processo in fieri. Nel progetto “Petrolio” dedicato a Pasolini, compaiono per esempio nuovi autori come Fausto Paravidino, Letizia Russo, Francesco Piccolo, Eleonora Danco, per citarne alcuni.

Passiamo al cinema. In un momento in cui si vivono paure devastanti come quella del terrorismo e della guerra, lei, con L’odore del sangue ha scelto di narrare una vicenda privata, intimistica, di sapore decadente. Non le sembra che sia una forma inconscia per esorcizzare o rimuovere paure sociali molto più inquietanti?

Penso che ogni vicenda che si narra è sempre legata alla realtà politica e sociale. Nella fattispecie il protagonista maschile, il marito, vive precisamente una sconfitta politica che è il crollo dell’utopia del sessantotto dell’”amore libero”. Quindi la vicenda non è così intimistica ma sociale, riguarda i rapporti sociali. L’uomo vive l’utopia di un amore non borghese, non esclusivo e invece si renderà conto di aver recato involontariamente una violenza ancora più grave alla moglie. Perché la moglie può accettare il tradimento ma non accetta la mortificazione della solitudine. Il personaggio di Silvia, la moglie, è quello che mi ha colpito più di tutti. Ha una statura tragica e misteriosa; di cui si coglie tutto ciò che le succede solo attraverso i dialoghi con il marito. E’ una specie di eroina romantica che rifiuta il ruolo di moglie abbandonata nelle stanze vuote. Si ribella. Anche attraverso una discesa negli inferi e una progressiva perdita di se stessa. Anche il marito è comunque un personaggio tragico perché soffre la disperata illusione di vivere un’utopia.

Lei spesso ha parlato di “funzione salvifica dell’arte”. Nell’Odore del sangue come si esprime ciò?

L’Odore del sangue narra di un viaggio interiore che riguarda la vita dei protagonisti, che indaga nei meandri oscuri del loro inconscio. Leggendo il libro di Parise ho provato una catarsi. Nel caso del mio film... dovranno dirlo gli spettatori se l’hanno provata o meno. È un film comunque che, come il libro di Parise all’epoca, “divide” il pubblico. O lo si accetta, o arriva, o lo si rifiuta. Perché prosegue emotivamente nello spettatore. Resta “vivo” solo se colpisce nel profondo.

Il libro di Parise è stato scritto negli anni settanta, lei invece ha scelto un’ambientazione contemporanea. Perché?

Diciamo che ho scelto una “non ambientazione”, un’ambientazione volutamente astratta proprio perché ritengo che il tema trattato, la vita di coppia e le sue problematiche, non si possa e non si debba storicizzare. I problemi rimangono gli stessi a distanza di trent’anni. Non è che con gli anni Settanta si siano risolti. Lo dimostrano, che ne so, i club privé che non sono altro che una forma morbosa di rappresentazione teatrale del desiderio di libertà dell’individuo: per questo si scinde il sesso dai sentimenti. I sentimenti sono contrari al sentimento di libertà che prova il protagonista. E questo vale ieri come oggi. Ecco perché l’ambientazione è astratta così come il linguaggio parlato che ha un impianto di derivazione drammaturgica volutamente anti-naturalistico.

[maggio 2004]


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