Intervista a Naomi Klein e Avi Lewis
”I nostri sogni non entrano nella scheda elettorale” è la sconsolata affermazione della giovane Mati, una della protagoniste dell’occupazione della fabbrica argentina “Forja San Martin” da parte degli stessi operai che ci avevano messo la vita, oltre che il lavoro, prima che questa venisse chiusa e abbandonata dai padroni. The Take è l’avventura di un cambiamento politico, la realizzazione dell’utopia di un’azienda autogestita dai suoi operai secondo un principio di vera democrazia diretta, per reagire al crollo economico e sociale determinato dalla politica liberista e ultracapitalista dei governanti argentini. The Take è un gran bel documentario sulla possibilità del cambiamento e della ricostruzione, sull’alternativa che viene dal basso, nonostante il desolante sfascio di un’intera nazione.
Naomi Klein, lei che è ormai una celeberrima giornalista d’inchiesta, perché ha sentito l’esigenza di raccontare una situazione politica attraverso il cinema?
Una narrazione come questa permette di valorizzare l’aspetto umano delle vicende. E poi c’è da considerare che i documentari stanno vivendo un periodo glorioso; cinque anni fa chi si sarebbe aspettato di poter vedere un’opera come questa, o come The Corporation, nelle sale cinematografiche? Oltre ad arrivare semplicemente in sala questi documentari stanno avendo anche un notevole successo di pubblico e poi hanno un grande valore aggiunto: non rappresentano solo uno strumento informativo per leggere la realtà, ma creano anche la possibilità di un’esperienza condivisa.
Secondo voi il documentario assolve la funzione informativa meglio del giornalismo?
Sicuramente, anche perché siamo convinti che in questo momento ci sia una crisi delle notizie televisive: ce ne sono talmente tante che alla fine non ce n’è per niente, perché sono superficiali e spesso controllate. Pensiamo all’Italia: c’è una straordinaria concentrazione nel controllo dei media... E poi, soprattutto in periodi di guerra, più informazioni ci sono e meno notizie reali si riescono ad avere; il documentario invece crea un contatto, un approfondimento, un’emozione... L’Argentina, in questo senso, è un esempio perfetto. Nel dicembre 2001, quando c’è stata la crisi economica, si sono scatenati i notiziari che hanno dato una folla di informazioni per un breve periodo di tempo, dopodichè non si è più saputo nulla della sorte degli argentini. Il documentario ci permette invece di avere una visione tridimensionale della realtà.
Pensate che un’opera come questa possa contribuire a cambiare le cose convincendo le persone ad agire, come crede Michael Moore? Era vostra intenzione avere un impatto politico con questo film?
Non abbiamo girato questo documentario con la precisa intenzione di cambiare l’orientamento politico degli spettatori, anche se non ci dispiacerebbe affatto se ciò succedesse. Quello che ci interessava davvero era catturare lo spirito di resistenza che ha condotto alla democrazia diretta nelle fabbriche autogestite, mostrare la fame di alternative di persone portate alla disperazione dalle cattive scelte politiche ed economiche dei loro governanti.
L’Argentina purtroppo non è l’unico paese in cui chiudono le fabbriche e vengono licenziate centinaia di persone. La vostra esperienza e le vostre ricerche vi hanno dimostrato che quello dell’occupazione delle fabbriche è un modello esportabile?
Sì. Abbiamo visto con piacere che è un’esperienza esportabile, tant’è vero che una vicenda simile è accaduta anche in Quebec. E’ anche per questo che cerchiamo di mostrare ovunque il nostro film: può servire da ispirazione. Siamo stati invitati da una comunità in Nord America che è colpita dalla stessa tragedia della chiusura delle fabbriche, e gli operai che hanno visto The Take ci hanno detto di sentirsi ispirati all’azione e di aver tratto dei buoni spunti dal film.
Al contrario di ciò che abbiamo visto recentemente in diversi altri documentari (The Corporation, ad esempio), in The Take avete deciso di seguire la storia di una singola vicenda dall’inizio alla fine, senza allargare troppo il discorso all’analisi macroeconomica. Perché?
Al contrario di The Corporation, ma anche di Fahrenheit 9/11, ci interessava raccontare una storia piccola, dall’inizio alla fine, perché questo ci permette di approfondire anche l’aspetto umano, i sentimenti delle persone coinvolte, le loro emozioni. Nel nostro documentario c’è un protagonista, il presidente della Forja, che seguiamo passo-passo nello sviluppo della sua azione politica insieme ai compagni. Era importante per noi mostrare come avviene il cambiamento, come è possibile fare qualcosa concretamente malgrado il sistema non faccia altro che instillarci la paura.
Siete rimasti in contatto con i protagonisti della vicenda che avete mostrato? La Forja è ancora funzionante?
Sì, siamo rimasti in contatto con quelli che sono stati i protagonisti della vicenda di The Take. La Forja San Martin cresce e va molto bene. Il nostro protagonista non ne è più presidente - semplicemente perché è prevista una rotazione - ma continua a lavorare nella fabbrica. Sappiamo anche che è in discussione una nuova legge sulla bancarotta proposta dai movimenti che prevede che, quando un’azienda fallisce, gli operai vengano considerati i primi creditori prima ancora che vengano vendute le macchine, in modo che abbiano la possibilità di recuperarle e rimettere in funzione la fabbrica. Questo renderebbe l’occupazione più semplice e frequente, ed eviterebbe l’attesa delle autorizzazioni da parte dello Stato.
Nel documentario la maggior parte degli eventi che ci aspetteremmo traumatici e violenti avviene invece in modo molto tranquillo e pacifico. C’è stata una precisa scelta di non mostrare la violenza, una sorta di autocensura?
Non abbiamo fatto nessun “aggiustamento” e non ci siamo imposti nessuna autocensura. E’ un ritratto onesto del cambiamento che è avvenuto dal primo all’ultimo giorno. Sappiamo che non tutte le occupazioni delle fabbriche sono così pacifiche come quella che abbiamo mostrato noi ma, dopo che abbiamo tenuto sotto controllo ben venti situazioni diverse, siamo riusciti a filmare solo questa occupazione. Non è affatto facile essere presenti il giorno dell’occupazione, anche perché spesso avvengono in modo spontaneo, non programmato e predefinito. Inoltre sentivamo una certa frustrazione nei confronti di quella che chiamiamo “pornografia della protesta”, secondo la quale si sceglie di mostrare, di queste lotte, soltanto il momento degli scontri e della violenza. Eravamo interessati, piuttosto, a far vedere come avviene il cambiamento nella sua gradualità, anche se questo approccio ha sicuramente un appeal mediatico molto minore. Ci siamo resi conto che soprattutto per i giovani è un mistero il processo del cambiamento, perché dai media viene sempre mostrato come un grande conflitto, mentre ci sono dei passaggi, delle discussioni... Infine siamo convinti che un documentario come il nostro possa rappresentare una minaccia più forte per il capitalismo dell’esposizione delle immagini di protesta violenta. Detto questo, anche in The Take ci sono momenti in cui gli operai tirano i sassi ai poliziotti, e questo dimostra che non c’è “censura”.
[marzo 2005]
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