Intervista a Sergio Rubini

Il suo ultimo film L’amore ritorna è “spudoratamente” autobiografico. Fino a che punto?
Il fatto che nel film ci sia una componente autobiografica è innegabile, e l’aspetto è stato molto sottolineato soprattutto da alcuni giornalisti. Evidentemente la cosa suscita inevitabili curiosità una storia di cinema nel cinema. In qualsiasi opera di narrazione c’è sempre una componente autobiografica. Ma è anche vero che nella creazione artistica si tratti di pura fantasia o di estremo realismo c’è sempre una reinterpretazione dei fatti in modo assolutamente soggettivo. Anche per me è difficile stabilire ciò che è reale e ciò che è immaginario. Quello che è importante è il senso complessivo della storia.
Sia in questo film che nel suo precedente si fa riferimento alla magia e al mondo dell’occulto. Ne L’anima gemella una donna brutta e cattiva, invidiosa della rivale bella e buona, usa faustianamente un filtro magico e le ruba l’aspetto fisico; ma alla fine come nelle favole con gnome la verità verrà fuori comunque. In L’amore ritorna c’è la presenza del fantasma di una ragazza morta che riappare per proteggere il protagonista. Insomma l’elemento magico e metafisico ritorna con prepotenza anche se stavolta in un contesto realistico.
L’idea della fisiognomica, cioè che l’aspetto interiore determini le caratteristiche fisiche, l’aspetto esteriore di una persona è sicuramente un concetto espresso in molte filosofie orientali e anche in Occidente, pensiamo a Socrate. Ma L’anima gemella voleva essere solo una fiaba fantastica che fa riferimento alla cultura popolare. La cultura meridionale è molto legata alla cultura magica del mito, della poesia e della leggenda. Anche se poi è vero che il mito è la versione popolare, diciamo “terrigna”, di concetti filosofici più intellettualmente sofisticati espressi da Socrate o Platone. Insomma L’anima gemella alla fine esprime un concetto molto semplice: siamo ciò che siamo dentro. La bellezza non esiste se non come riflesso delle nostra interiorità.
E il fantasma di L’amore ritorna?
Potrebbe essere reale e potrebbe essere una proiezione della madre e/o una necessità psicologica del malato. Non importa. In ogni caso ha una sua giustificazione e una sua effettiva influenza nella storia, nel percorso interiore del personaggio principale.
Perché il titolo L’amore ritorna?
L’amore per le persone che abbiamo amato non finisce mai, semplicemente si trasforma. Ecco perché ritorna: come nelle flusso delle onde. Quello che si è dato e abbiamo ricevuto ritorna sempre. Nei momenti tragici della vita, quelli che spingono a riflettere su noi stessi e su gli altri come la malattia, nel caso del protagonista, l’amore per la vita ritorna grazie alle persone che abbiamo amato e magari non ci sono più, grazie al loro ricordo che ci fa riscoprire la vita. È attraverso gli altri che il protagonista ritrova se stesso. Non a caso è un attore, un egocentrico narcisista che vede e vive tutto solo attraverso se stesso. Un uomo stressato e assorbito dall’azione che non si ferma mai: d’altra parte nella nostra società “sembra che siamo solo quello che facciamo”. La malattia lo costringe ad essere spettatore, a stare in platea, a fermarsi e a riflettere: così cambia punto di vista prospettico e per la prima volta si accorge anche degli altri. Insomma una catarsi liberatoria, una rinascita.
Nel film ha utilizzato anche un attore non professionista, suo padre, che tra l’altro offre un’ottima interpretazione.
Anche la figura di mio padre non si riferisce esattamente alla mia realtà biografica. Per quel che riguarda la sua interpretazione credo che abbia quella tipica spontaneità che si può trovare solo nei non professionisti. Gli attori professionisti con gli anni affinano la loro arte sempre di più grazie alla tecnica e l’esperienza ma finiscono per perdere autenticità e spontaneità. Ecco perché per me l’insegnamento Strasberg, che deriva da quello di Stanislavskij, rimane fondamentale.
La sua formazione professionale parte in effetti dal teatro, che però ha poi abbandonato. Come mai?
Ho iniziato con l’Accademia a diciotto anni e ho fatto teatro fino a 22 anni. Poi ho capito che non faceva per me. A me piace molto di più la recitazione cinematografica. In questo senso mi riferisco al metodo Strasberg: intendo l’immedesimazione a tutto tondo. Pensiamo a De Niro che ingrassa per interpretare il personaggio di un pugile. Il cinema consente ad un attore di studiare un personaggio in profondità; il teatro invece per ovvi motivi pratici necessita di un supporto tecnico, ti costringe insomma a indossare una maschera. E ciò alla lunga lo trovavo frustrante. Il cinema dà maggiori soddisfazioni nella ricerca di un attore. Ma anche questo ovviamente è soggettivo.
In La passione di Cristo ha interpretato un ruolo piccolo ma molto intenso. Come è stata l’esperienza con Mel Gibson?
È stata interessante e formativa, anche perché gli americani sono molto diversi da noi. Usano una metodica molto più professionale. Per loro il cinema è un industria dove tutto deve funzionare alla perfezione e ognuno ha un suo ruolo ben definito e circoscritto. C’è un clima che ricorda più una grande azienda, meno intimo e familiare del nostro. Ecco, una cosa che mi ha colpito è che mentre in Italia esistono figure professionalmente poliedriche, sulla scia di una cultura rinascimentale e con esiti spesso ragguardevoli, in America c’è molta specializzazione. Con questo non voglio dire che noi europei siamo dei cialtroni, anzi. Forse proprio la dimensione artigianale consente maggiore libertà di iniziativa, fantasia e improvvisazione. Si tratta solo di modi diversi di concepire un lavoro. Poi quel che conta alla fine non è il metodo, ma il risultato.
[aprile 2004]

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