Intervista con Giancarlo Moretti.

Roma, 02 Maggio 2014
Abbiamo intervistato il regista teatrale Giancarlo Moretti presso la Sala Gassman del Teatro dell’Orologio dove è in scena il suo ultimo lavoro dal titolo La Caccia.
Da cosa nasce l’idea di questo spettacolo e qual è il tema?
Giancarlo Moretti: Il tema è piuttosto attuale, la ricerca del lavoro, da almeno un anno o due in Italia e in Europa. Sull’onda di questo ho pensato di dedicare un lavoro alla ricerca del lavoro. Con un taglio paradossale, non faccio teatro documento, per cui non volevo riproporre esattamente la realtà, per questo bastano giornali e televisione. Il teatro ha la capacità di cogliere qualcosa che avviene, di rielaborarlo per ripresentarlo al pubblico che vede qualcosa che già conosce ma che il teatro gli mostra sotto un’altra angolazione. Il teatro può inventare delle storie.
Quello che dice è riferito al suo “teatro della quotidianità”?
G. M.: Si. A me piace trattare i temi di tutti i giorni però non in una maniera documentaristica ma creando delle storie che possono poi riproporre quella situazione in maniera tale da poter far sorridere, piangere o comunque emozionare.
Dunque senza rinunciare all’aspetto creativo.
G. M.: L’invenzione di una storia è sempre fondamentale. Infatti questa è la storia di un colloquio di lavoro. Ci sono tre candidati che si presentano per un lavoro, anche un buon posto, un posto dirigenziale. Saranno esaminati da un selezionatore, una persona dell’azienda e pian piano si comincerà a capire che questa persona non ha interesse per le loro competenze specifiche, tant’è che uno è un ingegnere, una è un avvocato e l’altra è laureata in economia. Tutti con esperienze diverse. L’esaminatore vuole sondare la loro disponibilità nei confronti di quello che chiede l’azienda.
In un certo senso sminuendo le competenze dei candidati?
G. M.: Le competenze non esistono. Le competenze non sono garanzia di fedeltà. Io ho dato un mio taglio che è quello che vede un mondo del lavoro che premia di più la fedeltà e l’obbedienza piuttosto che le competenze, la creatività, l’originalità.
Questo taglio è volto a una critica?
G. M.: Si, il problema del lavoro che vede chi offre lavoro con il coltello dalla parte del manico. Può stressare i candidati per vedere fin dove possono arrivare.
Questa critica nel confronti del mondo del lavoro si riallaccia a una sua esperienza di vita reale?
G. M.: Personalmente no, per fortuna. Ho sentito, letto, mi sono documentato su questo. C’è la parte di fantasia ma anche dei dati di fatto, racconti, libri e indicazioni su come adesso viene selezionato spesso il personale. Persona che si sono trovate in situazioni di questo tipo, certo non proprio come questa perché si tratta di una situazione paradossale, ma diciamo che i nuclei fondamentali sono quelli: scarsa attenzione verso le singole competenze e ricerca di una disponibilità a ciò che l’azienda chiede. Basta pensare alla disponibilità nel lavorare i giorni festivi, a spostarsi, magari rinunciare alla maternità o a posticiparla, a non mettersi in malattia, a essere in competizione con chi ha la scrivania accanto a te. Tutto poggiato su dei caratteri. Questi tre candidati hanno un obiettivo proprio, al di la dell’azienda. C’è chi viene alla ricerca del prestigio sociale, chi alla ricerca di denaro e chi alla ricerca del potere. Ognuno di loro chiede qualcosa all’azienda.
La speranza è quella di interessare il pubblico dando modo di rispecchiarsi in uno dei caratteri presentati?
G. M.: Si ma se non ci si rispecchia meglio ancora poiché si tratta di situazioni estremizzate. Cercare di capire cosa si trova intorno a noi con una chiave registico espressiva che io ho definito tragicomica.
Una sorta di straniamento?
G. M.: Un aspetto grottesco, una deformazione della realtà. C’è chi si dedica a un teatro realtà e chi prende dalla realtà cose che poi digerisce e ripropone.
Si è ispirato a fonti letterarie, teatrali e cinematografiche?
G. M.: Ho lavorato su testi di Pinter, che alcune volte ha questa vena. Beckett mi interessa molto, anche se diciamo che lui è un unicum. Brecht, ormai datatissimo, però sempre con quella vena satirica e grottesca, quella capacità di, come quei quadri di Otto Dix, far vedere la realtà ma non come una fotografia bensì come una specie di grande carnevale.
Qualche anno fa ho visto un suo spettacolo, Il terzo tempo, e mi era sembrato di intuire qualche riferimento a Pirandello.
G. M.: È ovvio che Pirandello è una base. Ha quella vena un po’ letteraria. Ma allora possiamo ripescare il vecchio Goldoni, uno che a suo modo riusciva a mettere in ridicolo con vizi e scempiaggini la sua vita e la sua epoca e contemporaneamente far riflettere. A me piace lavorare con le emozioni e mi piace se alla fine di uno spettacolo lo spettatore esce con un’emozione dentro. Quando qualcuno che è venuto ai miei spettacoli ritorna e me ne parla per me è la soddisfazione maggiore.
Queste emozioni derivano esclusivamente dal testo oppure anche da un impatto visivo? Come si confronta con la scenografia?
G. M.: Lei ha visto Il terzo tempo che era uno dei più elaborati a livello scenografico. In questo caso abbiamo ricreato la sala d’attesa di un ufficio, abbiamo portato le piante, i quadri e tutto quanto assolutamente anonimo. Non c’è neanche un cambio luci. Punto molto sul testo e sulle capacità degli attori di rendere il testo.
È lei stesso a curare la scenografia?
G. M.: No, c’è la scenografa che lavora sulle mie indicazioni. Deve essere una cosa semplice, non voglio orpelli, non voglio esagerazioni, alla fine quello che deve attirare è il testo e la recitazione. Per un teatro come il mio c’è un’ora e quindici di testo. Le persone che l’hanno visto, ho fatto qualche anteprima, mi hanno convinto del lavoro che ho fatto.
Per quanto riguarda gli attori preferisce lavorare con un cast predefinito o cambia a seconda dello spettacolo?
G. M.: A me piacerebbe anche affezionarmi agli attori ma è difficile mantenere contatti poiché il teatro, specialmente off, da tante piccole occasioni. In questo cast recita una bravissima attrice, Lucia Ciardo, che ha fatto il mio ultimo spettacolo Lola D. Abbiamo lavorato molto bene, lei era disponibile quindi abbiamo replicato questa avventura. Insieme a lei ci sono altri tre attori, Alberto Caramel, bravissimo e con esperienze importanti alle spalle, Rossella Rhao che è una brava attrice esordiente con cui ho fatto un lavoro su Goldoni e Domenico Stante, appassionato dei miei lavori, lavora tra teatro e teatro canzone. C’è un lavoro di gruppo, corale, si lavora insieme. Si crea insieme e ognuno porta del suo.
Fa uso di musica in questo suo ultimo lavoro?
G. M.: Qui non c’è niente, un paio di campanelli che suonano. Mentre in altri ci sono musiche qui non c’è nulla. È una sfida. Vediamo se riesco a fare uno spettacolo senza cambi di luce, senza movimenti, senza musica.
Quali sono i suoi gusti teatrali? Quale tipo di spettacoli la affascinano?
G. M.: Cerco di vedere molto. Mi piace andare a teatro perché c’è sempre da imparare, vedi i grandi maestri, i grandi attori, bellissimi testi sia classici sia contemporanei.
L’ultimo spettacolo che ha visto?
M. G.: La Medea con la Paiato. Bellissimo spettacolo, molto interessante ma le dico che quì all’Orologio fanno "Dominio pubblico", drammaturgia contemporanea che è fatta di signori spettacoli e signori attori. È difficile che abbiano la risonanza che ha il grande nome, però c’è tanta gente che fa belle cose e tanti attori bravi, che ti fanno emozionare. Questi spazi, nella loro essenzialità hanno la capacità di mettere vicinissimi attori e pubblico e si possono creare delle emozioni.
Cosa pensa del pubblico contemporaneo?
G. M.: Noi viviamo di pubblico. lo spettatore che entra e paga il biglietto ha poi il diritto di dire mi piace o non mi piace. Quelli che dicono di non aver capito il mio lavoro mi fanno domandare se ho fatto qualcosa che non è arrivato, se capita qualcuno a cui piace il mio lavoro spero che torni.
Si confronta spesso con i giudizi del pubblico?
G. M.: Si molto spesso. Gli ultimi sono stati positivi. Non perché abbiano detto tutti che lo spettacolo è stato bello ma anche perché mi hanno confessato di non aver capito alcune cose dunque di aver seguito lo spettacolo. L’importante è che ci sia stata una riflessione, o meglio un’emozione. Io ho esordito qui con un lavoro, "Un giorno qualsiasi", che parla di una sera a cena tra due coniugi che si dicono quello che non si sono detti per tanti anni. Queste due persone in un salotto per un’ora e venti. Non è volata una mosca e la gente fuori mi chiedeva spiegazioni sul finale enigmatico.
Un finale sospeso con nel Terzo tempo?
G. M.: Si e come nello spettacolo di stasera, in cui nell’ultima battuta c’è un buio e nessuno saprà cos’è accaduto. Pirandello diceva che la verità è più di una.. io dico che la verità non esiste.
Progetti per il futuro?
G. M.: Si ho già in testa tutto. Il problema è vedere se riesco a farlo. Io nasco come attore poi ho scoperto la mia vena registica e mi sto dedicando a questa dal 2011. La mia speranza è che un giorno i miei lavori vengano messi in scena da altri. Parliamoci chiaro, il più violentato di tutti gli autori è Shakespeare, se potessi essere violentato come lui per centinaia di anni ne sarei felicissimo. Il testo che riesce a sopravvivere a tutti i registi e attori allora è un buon testo. Bisogna metterlo alla prova.
Cerca dunque di trasmettere un messaggio universale?
G. M.: Mi piacerebbe. Anche se ovviamente Shakespeare hA lavorato su delle metafore, diciamo su uno straniamento, posizionandosi in una storia mitica e leggendaria. Il lavoro che faccio io è molto più concreto.
Beckett e Brecht, di cui parlava, lavoravano sulla contemporaneità.
G. M.: Brecht ultimamente stenta, ogni tanto riappare ma.. secondo me è difficile mettere in scena Brecht. O si fa una cosa filologica oppure devi avere proprio una bella idea. Se lo dovessi fare io non lo farei in modo filologico poiché a questo punto si deve staccare il significato dalla forma. Brecht è ancora molto vicino a noi. È un autore che mi piace tantissimo e talvolta ho anche accarezzato l’idea di fare qualcosa ma poi ho detto: che faccio? Faccio Brecht? Non sono in grado, non sono capace di fare Brecht. Faccio altro? Meglio di no. Mentre si arriva su Shakespeare, anche su Beckett, con più mano libera. Brecht è invece così pieno di cose e così studiato che.. come fai? È difficile.
Un’ultima domanda. Tornando sullo spettacolo La Caccia, come mai questo titolo?
G. M.: I titoli sono importanti ma non sono descrittivi. Se vogliamo è un titolo metaforico. La caccia come ricerca e come inseguimento, questo andare a caccia di qualcosa significa andare alla ricerca di qualcosa. Dalla’altra parte il selezionatore dell’azienda li caccia e loro devono scappare.

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