Isole del corpo, Prigioni dell’anima - Le derive spaziali di Kim Ki-Duk

Il raccordo con il paesaggio interiore di personaggi tormentati,condannati,segnati e il proseguimento nel mondo di realtà geograficamente e architettonicamente concepite come a sé stanti,lontane dall’idea di spazio convenzionalmente espresso dalla società civile,sembrano essere le due coordinate fondamentali dentro le quali la mdp di Kim-ki Duk sceglie di muoversi per definire il rapporto intenso,segreto e quasi magico che ogni suo eroe e ogni sua eroina possiedono con i luoghi che occupano fisicamente,stabilendo quello che potremmo chiamare un dialogo silenzioso e trascendentale con lo spirito pagano della materia. Là dove non arriva la parola a sondare inquietudini troppo sottili e sommerse e che forse neanche gli stessi personaggi riescono a far emergere con la necessaria forza propulsiva per liberarsene, è presente l’imperturbabile potenza dell’elemento naturale ad evindenziare e sottolineare la verità di un dolore implacabile, una “malattia” da cui è possibile salvarsi trovando una via di fuga nella prospettiva inusuale che offre un appartamento vuoto,piuttosto che nelle profondità del mare o tra le montagne ataviche di un monastero buddista.Ma per Kim-ki Duk questa liberazione diventa paradossalmente autoreferenziale e limitante,chiude il cerchio dopo aver permesso intrusioni e assalti da parte dell’esterno,riporta una scelta di esclusività,solitudine e isolamento all’ interno dei confini stabiliti di ambienti dotati della stessa apertura e dello stesso respiro di una fisarmonica che una volta emesso un suono disarticolato torna nella sua posizione originaria,ancora vibrante in un moto perpetuo. E come gran parte del cinema orientale(in particolare quello Giapponese),l’acqua diventa la magnifica ossessione che fa da controparte muta ed incantevole al degrado e all’abiezione in cui sprofondano gli uomini e le donne di Duk: L’immagine che resta più impressa per la sua capacità di evocare orrore e meraviglia nella memoria visiva è quella del protagonista de L’isola,con gli aghi infilati nella bocca,che viene ripescato dalla donna che lo ama silenziosamente e che,per soffocare l’atrocità del dolore fisico,gli si concederà nel piacere sessuale.In questa sequenza da fiaba dark c’è il fulcro,il nocciolo della concezione dello spazio di Duk rispetto al corpo sensuale ed emozionale dei personaggi,il passaggio da uno stato interiore deteriore e infettato-la piccola casa sul mare dove vive tra l’indifferenza e la solitudine-ad una condizione di denudamento e vulnerabilità-la botola che funge da gabinetto direttamente dentro l’acqua,dove la donna immergerà l’uomo per nasconderlo dalla polizia che lo stava cercando-fino alla rinascita e all’apertura verso l’esterno-lo splendido piano lungo della coppia immersa nel verdeggiante e accogliente panorama intorno alle case isolate e non dialoganti.Questo senso di chiusura\apertura è direttamente e ineluttabilmente legato,come il destino attraversato dalla violenza e dall’emarginazione,a individui il cui istinto di appartenenza al posto da cui provengono o da cui scelgono di provenire resta l’ultima identità possibile,oltre i vincoli stessi della morte del corpo.Ne è l’esempio più cristallino la conclusione di Ferro 3,dove l’interesse non sta nell’accertare la morte reale o immaginaria del protagonista,ma il fatto che la donna con cui ha vissuto da “fantasma” attraverso le case degli altri,ora lo percepisce in una dimensione che sublima il desiderio sentimentale e sessuale nella sensorialità dei luoghi,impressionati tanto con la concretezza del gesto che con la vibrazione impercettibile della relazione tra due esseri umani.Dall’appartenenza allo spazio si passa all’appartenersi nello spazio,oscillando tra istinto(paesaggio naturale) e cultura(paesaggio urbano o meglio sub-urbano),la manifestazione di un disagio condiviso ora frammentato in un caos primordiale e assordante,ora chiuso nel soffio di un vento conciliante.Come Coccodrillo,il disperato protagonista del primo,omonimo film di Duk che,per suggellare l’amore con una ragazza suicida, sceglierà il putrido e desolato fondale di un fiume di città;O come l’ultimo monaco di Primavera,estate,autunno,inverno...e ancora primavera che,con la sua scalata conclusiva della montagna, stabilirà la comunione tra ciò che è culturale e umano(il monastero) e ciò che è sempre esistito in natura,dandoci l’idea che solo superando tale dicotomia potremmo essere realmente liberi dalle nostre gabbie.
