L’uomo delle caverne di Eastwood

Il prezzo del progresso è la distruzione. Lo sa bene Eastwood, che da perfetto westerner ancorato ad alcuni isolati, ma saldissimi punti di riferimento sul campo, quando scantona in territori che non gli sono propri è solito approcciare con sguardo circospetto il panorama che lo circonda. ‘Il vecchio Clint’ ama esordire schizzando attraverso pochi, precisi tratti di matita (come nel bell’incipit di Potere Assoluto) personaggi e ambienti. Solo in seconda battuta si dipanano da quel segno primigenio sulla tela ulteriori istanze narrative, voci che arricchiscono un argomentare sempre sciolto e piacevole. L’ultimo grande story-teller (insieme ad un Cimino, un Carpenter o un John Sayles) ha un rapporto evidentemente conflittuale con la modernità, come papà-Peckinpah: si veda l’esperimento fallimentare, uno dei rari passi falsi recenti, dell’unico titolo fantascientifico presente nella sua ricca filmografia, quello Space Cowboys significativamente saldato nel nome al genere che più gli è congeniale. E diventa allora supremamente interessante ritrovarlo alle prese con il film bellico, un terreno da cui riparte in solitaria per mettersi ancora una volta sulle tracce di uomini nuovi, ma ancora schiavi delle medesime logiche di sempre.
Il racconto giapponese prende le mosse dal particolare minuto, dall’atto estremamente concreto e produttivo dello scavar fosse, mentre di là le oltre due ore di proiezione scaturivano dal gesto, assunto immediatamente grazie alla Stampa e investito poi dalla Storia a momento fondativo della supremazia americana nell’arte della guerra. Al movimento ascensionale di conquista della collina (e dei cieli per estensione) corrisponde in Letters from Iwo Jima un moto opposto, necessariamente legato al lavoro di fatica, allo sforzo strategico di chi dispone di un numero esiguo di mezzi: Eastwood traccia la parabola discendente dell’arco e descrive il suo cerchio compiuto. Una circonferenza questa volta tanto ampia da ricondurlo ai primi passi della sua nascita artistica, nel segno di Kurosawa, con la scelta radicale della lingua giapponese e la stessa disposizione del maestro alla muta contemplazione delle azioni dei suoi personaggi, financo le più violente ed inesplicabili.
America contro Giappone. Gloria contro Onore. Intorno al teorema già postulato continua ad interrogarsi pervicacemente il regista, nel vasto disegno qui ideato. Può un uomo accettare supinamente l’asservimento a logiche di tale ardua assimilazione da risultare del tutto sfuggenti, quando non francamente incomprensibili? Quesiti rilanciati puntualmente dalla bruciante attualità di altre guerre moderne. L’anacronista Clint, dopo l’attualissimo film sull’eutanasia, si conferma sul pezzo più di molti altri autori cosiddetti ‘impegnati’. Anche oggi ci vengono riproposte parole-contenitori di contenuti vuoti, valori estremi ed imposti ai quali non corrispondono esigenze realmente connaturate all’uomo. La gloria in nome della quale vengono costruite statue, per immortalare gli uomini negandone caparbiamente la morte, finiscono con l’esaltarne gesta vacue oltre che casuali. L’onore che finisce parimenti col rendere censurabili i sentimenti più umani di quelle che si vorrebbero invece come perfette macchine da guerra. Ovunque punti la sua macchina da presa, è il trionfo dell’insensatezza.
La fotografia di Tom Stern ricalca quella degli scatti d’epoca un poco ingialliti, come le lettere consunte e usurate dal tempo, dai contorni labili come i ricordi. La doratura del film americano si rivelava piuttosto una patina ingannevole di falsità, passata come una mano di vernice sull’ossatura striminzita della vicenda, quasi per rimpolparla e darle maggiore sostanza. Eppure, man mano che ci addentriamo in questo nuovo episodio giapponese, nei recessi del ‘dicibile’ o anche solo del ‘rappresentabile’, essa diviene sempre più inchiostrata, oscura ed insondabile come il cuore nero degli uomini avvinti da troppo tempo in una illogicità stringente che vanifica ogni sforzo di segno contrario. Si finisce per perdere di vista anche il naturale ordine di priorità delle cose (salvare la gamella per defecare, piuttosto che la pelle) oppure per essere risucchiati in una rieducazione folle (festeggiare la chiamata alle armi come il più fausto degli eventi).
Gli Spietati, dunque, sono di nuovo non tanto uomini crudeli per natura, ma persone spinte sempre più al limite dagli eccessi dell’esasperazione, l’inevitabile prodotto di un sistema malato. Nell’Ottocento, negli anni ’40 come oggi, l’uomo in guerra è l’uomo delle caverne: un’equivalenza incontrovertibile, matematica. E allora, ecco il ‘war-movie claustrofobico’, dove non filtra luce e non arriva l’aria e all’interno del quale la voce della ragione viene risospinta sul fondo.
Inghiottito in questa dimensione coatta della guerra delle cave, in cui la civiltà degli uomini si è inabissata, Eastwood riesce miracolosamente a tenere in piedi l’usuale narrazione di ampio respiro, mentre non vacilla neppure per un istante la sua fede nella galanteria degli ufficiali dell’esercito (come ne La Grande Illusione).
Alcuni scorci ritornano, identici, nell’uno e nell’altro film. Ancora: stesso significante, significati diversi. Il dolce profilo del colle da scalare trionfalmente, dolce come lo è la vittoria, per i marines. Agognato per i ’cavernicoli’ giapponesi, che vi giungeranno infine solo per trovarvi l’ennesima beffa di una sepoltura, in un suolo difeso fino all’ultimo respiro, eppure non più patrio.
Altro cerchio che, infine, si chiude. E il cerchio, come il labirinto, è spazio impossibile da evadere.
