La Delusione del Western Larmoyante

Dato per spacciato ormai da tempo immemorabile, il western ha sempre saputo riconquistarsi sul campo il suo diritto alla sopravvivenza tra i grandi generi cinematografici e il suo fantasma ha continuato ad attraversare caparbiamente il cinema americano degli ultimi anni. Incalcolabile il numero dei registi che si sono serviti dapprima del suo conio e poi addirittura della sua carcassa per proseguire un discorso critico sul presente, attraverso riproposizioni, attualizzazioni, ribaltamenti di prospettiva. Le cose hanno iniziato a seguire questo corso almeno dalla celebre teorizzazione del “surwestern”da parte di André Bazin, con la quale il grande studioso francese coglieva in presa diretta una mutazione nel genere: “Il surwestern è un western che si vergognerebbe di non essere che sé stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico... insomma, con un qualche valore estrinseco al genere e che si supponga lo arricchisca”.
Eppure in occasione dell’uscita di Brokeback Mountain si è sentito ripetere da ogni parte come un’eco che non di western d.o.c. si tratterebbe, ma (solo) di “melodrammone” d’ambientazione western. Una simile obiezione, se cozza di fatto con la natura invero intimista della vicenda di Jack e Ennis, nega per altro verso a titoli come Duello al Sole, Johnny Guitar o Il Cavaliere della Valle Solitaria il pieno diritto di cittadinanza nei confini del genere: ciò che equivarrebbe ad un’eresia per il cultore dei film di cowboys.
Se si confronta però il mélo-western con i titoli dovuti ad autori ormai assurti al rango di grandi numi tutelari del genere, come quelli firmati da John Ford, balzerà immediatamente agli occhi una curiosa peculiarità della prima variante spuria: il mélo-western è quasi sempre montagnoso. Il paesaggio romantico disegna in questi film un tracciato nervoso, una sorta di panorama dei sentimenti incaricato di esplicitare e portare prepotentemente sulla scena pensieri altrimenti sepolti in fondo all’animo dei protagonisti, con i loro picchi di estasi e gli abissi di disperazione. I mélo-western raccontano storie impervie e la carica elettrostatica che recano con sé si sprigiona in finali-climax “in salita” (Duello al Sole, Johnny Guitar, Gli Amanti della Città Sepolta ecc... ). Autori romantici come Anthony Mann o Budd Boetticher, per non parlare del cinema perennemente “in bilico” di Sam Peckinpah, hanno spesso privilegiato simili fondali per le loro storie violente. Per tacere di un autore come Delmer Daves, troppo a lungo e ingiustamente sottovalutato e relegato nella folta schiera degli abili mestieranti di Hollywood. Daves amava girare western con forti ascendenze dal noir e/o dal mélo: emblematico il suo Vento di Terre Lontane, film del 1956 (giusto cinquant’anni fa) in cui tentava di trasportare un melodramma classico tra le praterie americane. E’ uno di quei western che invitano alla meditazione, piuttosto che all’azione: considerazione sulla cui scorta si inscrive anche un’opera come Brokeback Mountain, come si vede bene. L’autore de L’Amante Indiana, altro titolo dalla valenza epocale, grazie al quale si riabilitavano gli indiani agli occhi dello spettatore americano, presenta più di un punto di contatto con Ang Lee: come lui poco amato dalla critica e transfugo dei generi, veniva considerato dai suoi contemporanei un regista “anonimo”: mentre a riguardarli oggi, i suoi film recano evidentemente con sé l’impronta discreta, del loro autore. Ogni titolo della sua filmografia appare in definitiva un’astrazione, come avviene anche per il poliedrico autore taiwanese, che passa da Hulk a questa storia di cowboys gay con la leggerezza delle sue spadaccine wuxia.
Nella cultura americana è tradizione parlare dell’opposizione tra deserto e giardino: se i western di Ford e dei suoi seguaci sono riconducibili al primo schema, quello apparentato alla nobile tragedia, i mélo-western sembrano rinverditi e “bagnati” dagli umori dei loro protagonisti. In un caso come nell’altro però, nei film western i sentimenti amorosi sono (quasi) sempre appena accennati, trattenuti, o nel peggiore dei casi, soffocati.
Il “cinema americano per eccellenza” (ancora Bazin) è genere scarsamente loquace, poco disponibile alle chiacchiere: le parole qui vengono tenute in gran conto e conservate come preziose munizioni o usate per ferire. Di quest’uso della parola si ricorda Ang Lee per i dialoghi del suo film: basti pensare alle reticenze del suo protagonista Ennis, che è per l’intera durata del film tutto un fascio di nervi (perfetta la recitazione in surplace di Heath Ledger, che restituisce tutte le asperità tipiche del westerner).
Le tematiche amorose vengono schizzate en-passant o addirittura evitate con cura. E’ un adagio assai noto come spesso siano state sostituite, nel peso dato all’interno delle storie di cowboys, dalle ben note amicizie virili tipiche di tanti western (dai gruppi “a quattro” di Hawks ai mucchi selvaggi alla Peckinpah). E a tal proposito è spesso stata notata l’omosessualità latente nel genere, in tutti quei momenti nei quali veniva fatto risaltare per contrasto come l’intesa perfetta fosse raggiungibile solo tra due compagni d’avventura, dal momento che le donne venivano regolarmente tenute fuori da quella dimensione esterna - la più importante - della loro vita. Si pensi alla storia d’amore impossibile, un po’ “tagliata con l’accetta”, tra Shane e la signora Starrett. Forse che non sarebbe stato pensabile che Shane avesse condiviso simili sentimenti con Starrett? Quando, durante la famosa scena della zuffa all’emporio i due si trovano a lottare da soli contro tutti fianco a fianco, anzi, schiena contro schiena e si scambiano sguardi d’intesa (come già durante i lavori “domestici”) fanno pensare effettivamente, senza alcuna forzatura, ad Achille e Patroclo, come è stato scritto.
Ang Lee con Brokeback Mountain non fa che portare sul terreno un sottotesto che abbiamo visto in decine e decine di film ascrivibili al genere. Addirittura affrontando con il consueto rigore improntato al classicismo il tema del doppio, uno dei topoi più studiati del western: il protagonista che si confronta con un Altro simile a sé che assume il ruolo dell’alleato, dell’amato del rivale o del nemico: solo che nel rapporto totalizzante tra Jack e Ennis, ciascuno rappresenta per l’altro tutti questi ruoli contemporaneamente. Così dicasi per la tradizione, identica nei western e nei mélo, per cui la società esige la scomparsa dell’onta (qui resa letteralmente con la bella immagine della giacca e la camicia unite per sempre nel sangue rappreso, attraverso una macchia che non verrà mai lavata) per mezzo dell’eliminazione fisica del diverso.
Ma allora, da dove nasce lo scandalo? Eppure, l’altra importante pellicola americana sulla diversità sessuale di quest’anno, Transamerica, assai più cruda e diretta nel trattare una tematica “scomoda” (per il pubblico di benpensanti, ovvio) non ha suscitato neppure lontanamente lo stesso vespaio di polemiche. Si dirà che essa si iscrive in una tradizione di cinema indipendente che nasce per suo statuto già per un pubblico di nicchia, quello che la tradizione vuole di larghe vedute. Eppure ci pare che ci sia dell’altro. Transamerica è un’opera notevole con una sceneggiatura brillante e corrosiva, ma è una commedia, genere a cui si è disposti a perdonare molto: qui il sorriso stempera il dramma della protagonista e spezza il fiume in piena del suo dolore in mille rivoli, rendendolo sopportabile.
La pietra dello scandalo per il film di Lee deriva invece, a ben vedere, dalla sua natura di melodramma: se il western “nobile” riprendeva gli stilemi della tragedia, quello doppiamente “impuro” nato dalla filiazione con il mélo cinematografico, è erede della Comédie Larmoyante (“commedia lacrimosa” o “lacrimevole”), genere drammatico francese settecentesco. E il melodramma si sa, crea sempre un senso di disagio e di imbarazzo nello spettatore a causa della sua temperatura emotiva bollente: la delusione degli Oscar, che premiano Lee come miglior regista, salvo poi prendere le distanze dalla sua creatura, è l’ennesimo scotto da tributare a questa tradizione, tanto difficile da trascendere? Probabilmente Crash, neppure tenuto in considerazione dalla stampa estera che assegna i Golden Globes, è un film che tocca più da vicino corde sensibili per tutti gli americani.
Entrambi spettacoli della cui origine popolare pare debbano pagare dazio all’infinito, western e mélo, troppo a lungo (bis)trattati come materia d’artigianato o da soap-opera, hanno ospitato e continuano ad abbracciare al loro interno, come le Brokeback Mountains del film, anche momenti di autentica emozione che sconfina nel Grande Cinema.
