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La guerra negli occhi

Pubblicato il 16 luglio 2005 da Alessandro Izzi


La guerra negli occhi

“Riesci a vedere?” era la domanda che la precog di Minority report poneva a Tom Cruise sancendo con queste parole l’impossibilità dell’uomo di capire davvero e fino in fondo l’oggetto della propria visione. Un gesto filosofico, quello portato avanti nel film, che mette in discussione il significato stesso dell’atto del vedere e del riconoscere, del capire ciò che si imprime sulla retina del bulbo oculare. Vedere non equivale più a capire, secondo il discorso del nuovo Spielberg il regista fanciullo che si è ormai definitivamente sporcato le mani e lo sguardo del sangue della Storia e dell’orrore di cui è capace il genere umano, perché quello che gli uomini della nuova generazione televisiva sono capaci di fare adesso è solo “guardare”. Di fronte alla televisione (quella stessa pay tv che la piccola Dakota Fanning in La Guerra dei mondi richiede al padre non appena entrata in casa) che ci propone il solo modello dell’immagine vuota, della pura e semplice trasmissione a distanza del simulacro visibile delle cose (ma non del loro significato), l’importanza del lavoro del cineasta sembra sempre più perdere valore e significato, si riduce nei limiti del possibile a puro esercizio di stile. Se lo spettatore è ormai da tempo aduso solo alla visione di superficie, se quello che conta per tutti è ormai solo lo sfarfallio fugace dei colori sul piano neutro di uno schermo sempre più piccolo, allora ad un regista (che oltrettutto nel passato ha contribuito in maniera determinante alla costituzione di quello standard visuale che ha condotto inesorabilmente alla globalizzazione del linguaggio cinematografico) non resta che rifugiarsi con dolore in un discorso sempre più suicida, sempre più amaro e triste sulle contraddizioni del vivere contemporaneo.
”Non guardare” è l’invito che Tom Cruise rivolge costantemente alla piccola protagonista di La Guerra dei mondi. Il soggetto privilegiato del cinema di Spielberg (l’eterno fanciullino che ci riporta sempre alla nostra innocenza primigenia), il destinatario ideale delle pellicole del regista americano (che si rivolge sempre ai bambini trattandoli come interlocutori ideali delle proprie favole fantascientifiche) devono di colpo chiudere gli occhi di fronte all’orrore del mondo circostante, devono concentrare la propria attenzione altrove, nel chiuso del proprio spazio vitale, quello circoscritto tra le loro piccole braccia e che dovrebbe apparire come eternamente inviolabile (sappiamo bene, fin dai tempi di Schindler’s list, come sia illusoria questa aspirazione tipicamente americana ad un proprio mondo chiuso ed impermeabile al male circostante). Il film inscena, allora, una progressione ideale, una costante ed incredibile riduzione del proprio raggio di visione dal chiuso della macchina in cui la piccola ha la sua prima crisi di panico, al solo volto del padre quando viene fatta uscire dalla casa della madre su cui è appena precipitato un aereo passeggeri fino al nero puro di una benda esempio del vuoto assoluto dello sguardo quando il padre uccide, per salvare la figlia, il folle depositario del desiderio americano di combattere reazionariamente contro gli alieni anche se la lotta è fin dall’inizio assolutamente destinata alla sconfitta.
Una scena, quest’ultima, la cui visione è sublimemente negata anche allo stesso spettatore in una delle ellissi più sorprendenti e magnifiche di tutta la pellicola a sottintendere, con il suo tono da gotico americano, un gesto polemico verso l’America di Bush che davvero può ancora illudersi di nascondersi nel sottosuolo per poi riemergere vittoriosa in una fatale insurrezione contro gli alieni occupanti. E solo un attore liberal come Tim Robbins poteva dare a questo personaggio sgradevole quell’aura di allucinata follia che tanto bene descrive lo stato dell’attuale politica estera statunitense.
Assume un senso ulteriore, allora, la scelta estranea al romanzo (nei cui confronti il regista mantiene una posizione quasi ancillare) di trasformare i massicci tripodi attaccanti da ordigni bellici caduti dal cielo in macchine sepolte nel suolo fin dall’inizio della vita sulla terra, quasi a rendere palesemente il senso di una minaccia che è sia esterna (perché in ultimo proviene dalla spazio) sia interna perché si annida proprio in quel patrio suolo che ciascun americano percepisce come inviolabile, come realtà sempre da difendere dai brutali attacchi del mondo esterno ed invidioso.
Il male, insomma, è tanto estraneo quanto implicito nel sistema stesso dei valori sui quali si fonda la realtà americana nei cui confronti Spielberg sembra nutrire un sentimento ambiguo indefinibile perché è propenso a condannarne gli esiti anche e soprattutto nel momento in cui rivendica la loro giustezza. Valori come la famiglia (perenne nume tutelare di tutte le messe in scena spielberghiane) sono buoni di per sé, il fallimento della società americana non è, quindi, nell’ideale professato, ma nella sua applicazione, nella sua riduzione a pura e semplice apparenza, ad immagine di superficie, ancora una volta, a figura utile per qualche spot pubblicitario tutto intessuto di sorrisi durbans, di cani che corrono sui prati e di una felicità posticcia che ha l’aspetto delle torte fatte in casa e il sapore plastificato dei dolci del McDonald.
Il modo con cui, in rapide e gelide pennellate, il regista descrive la famiglia protagonista del film è frutto di una desolazione senza pari. Padri incapaci di comunicare con i propri figli, incapacità relazionali, rifiuto all’ascolto (il ragazzo rifiuta ogni contatto con il mondo esterno chiudendo la propria coscienza con le cuffiette di un invasivo walkman) e alla comprensione reciproca. Questa la realtà americana descritta del regista con amaro disincanto in una rappresentazione dove anche il momento topico della realtà americana, quello che ama rappresentarsi al mondo come momento di salute e felicità quale è la partita di baseball tra padri e figli sul giardino antistante la casa, assume qui i connotati di un gioco maligno dove a trionfare è l’aggressività sopita di una relazione incapace a risolversi e che si conclude con il foro tragico del vetro rotto dalla palla.
Il vetro: un simbolo cinematografico potente che già aveva dimostrato la sua portata simbolica in un film sottovalutato come Signs si Shyamalan (pellicola con cui La Guerra dei mondi ha non pochi punti in comune) metafora di una visione sicura perché ci permette di osservare il mondo circostante senza esserne toccati. Uno schermo, quasi, che separa l’interno dall’esterno e che chiude senza dare l’illusione della chiusura perché se non altro alla luce è sempre permesso di passare. Lo sguardo, insomma, con cui l’America ha sempre osservato il mondo. Ma nella scena in questione, se l’interno del nucleo familiare è già radicalmente malato, la rottura del vetro serve solo a certificare una volta per tutto l’insalubrità di quella chiusura. Da un foro analogo, per non dire identico, Tom Cruise vedrà, quasi alla fine del film, la sua piccola rapita dagli alieni, mentre è chiuso all’interno dell’abitacolo di un veicolo troppo esposto per dare la sicurezza di una qualche forma di salvezza. La somiglianza iconica tra le due inquadrature è troppo insistita per farci pensare al caso anche perché se il primo foro era osservato dal padre nella presa di consapevolezza del vuoto esistente tra sé e i propri figli, il secondo (significativamente guardato nella direttiva inversa rispetto alla prima inquadratura: vale a dire dall’interno verso l’esterno) agisce come pungolo all’azione, come momento necessario di una presa di posizione volta al superamento di una distanza che fino a quel momento era parsa incolmabile.
Il ricongiungimento familiare avviene, ovviamente, secondo una strategia narrativa vecchia come il mondo, proprio nel momento in cui gi alieni vengono sconfitti non dall’azione dello Stato (significativamente assente, molto più dei network televisivi che invece ancora circolano e filmano la guerra in cerca di uno scoop che potrebbe non avere testimoni), ma dall’invisibile azione delle malattie comuni, dai batteri. Da questo punto di vista assume un’enfasi inutile la scena dell’abbattimento per mano umana di uno dei tripodi, un surplus di fiducia nel genere umano (o nella bandiera americana) che nuoce alla coerenza stessa del discorso. E obiezioni analoghe possono sorgere costantemente nel corso della visione. Si potrebbe rimarcare, ad esempio, che la visione così chiusa del solo spazio angusto dei rapporti interpersonali potrebbe essere intesa come un passo indietro nel pensiero politico del regista di Minority Report. Eppure il modo in cui gli alieni consumano gli uomini alla stregua di lattine di coca cola da bere accartocciare e buttare via ricorda troppo da vicino la pratica bassa del McDonald per non farci pensare un momento. Forse, nascosta tra le pieghe della storia, c’è anche l’immagine del colonialismo culturale americano (come del resto il romanzo di Wells era una feroce critica al colonialismo britannico) forse dietro la ridda degli effetti speciali c’è anche la visione di un mondo, come quello americano, che nasconde dietro il rosso rutilante delle insegne della Coca Cola lo sfruttamento intensivo del lavoro e del sangue delle nazioni del terzo mondo. Lo stesso sangue che nel film viene sparso a profusione nelle verdi campagne americane per creare un mondo nuovo in cui l’uomo è solo cibo da fast food. Domani come oggi, in fondo. Senza molta speranza per un mondo migliore.

[luglio 2005]


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