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La rivincita dei Mocciosi (Moccia e Muccino tra pagina e film)

Pubblicato il 4 febbraio 2008 da Alessandro Izzi


La rivincita dei Mocciosi (Moccia e Muccino tra pagina e film)

Il febbraio del 2008 passerà alla storia del cinema italiano (una storia poco importante per quella scheggia di globo a forma di stivale sulla quale viviamo) come il mese della rivincita del romanzo, come il momento catartico della riscossa agognata e sognata della parola scritta rispetto all’imponderabile, insostenibile leggerezza dell’immagine e del film.
Scusa ma ti chiamo amore, prima, e Parlami d’amore, poi, segnano, di fatto, il trionfo delle intenzioni del romanziere rispetto alla volontà più impersonale o, se preferite, più collettiva della macchina cinema. In entrambi i casi, infatti, è l’autore del romanzo di partenza (Moccia per il primo, Muccino per il secondo, uniti in consonanza da uno stesso destino) a dichiarare apertamente un’incrollabile sfiducia nella possibilità che il cinema (almeno quello di un regista “qualsiasi”) riesca a mettere in scena, a trasformare in immagine ciò che è già stato sognato sulla e nella pagina.
In entrambi i casi, con più o meno grande consapevolezza, ad essere messa sul piedistallo è, quindi, la storia, il “verbum”, mentre il cinema diviene solo un veicolo di trasposizione, un passaggio secondario, non molto importante per far sì che l’opera, già compiuta e definitivamente intoccabile nelle pagine, trovi un altro spazio d’espressione, un altro canale di diffusione presso pubblici non poi tanto più vasti di quelli dei lettori.
Perché, a ben guardare, il target di pubblico resta, tra libro e film, sostanzialmente lo stesso. Anzi si presuppone che l’acquirente del biglietto per la proiezione della nuova pellicola sia, in fondo, lo stesso che ha già sganciato i suoi bei soldini per l’acquisto di una copia del vecchio romanzo da cui tutto è partito. L’esperienza della proiezione è posta, così, in netta sudditanza rispetto a quella della lettura e il presupposto per la messa in film del romanzo non è quella, sin qui autorialmente colta, di scavare nella pagina in cerca di suggestioni nuove e di diverse chiavi di lettura, ma quella di replicare quanto già detto. L’idea, insomma, è che il lettore, andando in sala, non cerchi altro, nel film, che una ripetizione, in un altro codice, di quanto già esperito in sede di lettura. Sicché il lavoro del regista (che di fatto deve coincidere con lo scrittore del romanzo) è quello di recuperare tutte le suggestioni, le atmosfere, le idiosincrasie e i vezzi del romanzo, senza aggiungere nulla a quanto già detto. Anche se, a leggere le interviste a Moccia o a Silvio Muccino, sembra piuttosto che la principale paura dei romanzieri sia stata non tanto quella dell’aggiunta, quanto, piuttosto, quella della sottrazione, della semplificazione, della riduzione. Paura certo comprensibile per Parlami d’amore di Vangelista e Muccino che è un romanzo lungo, denso e a tratti volutamente contraddittorio, ma che suona “strana” quando si parla di Moccia. Perché non ci riesce di comprendere come si possa sottrarre qualcosa al niente senza che questo resti, appunto, niente.
Alla base della scelta di scesa in campo di Moccia e Muccino ci sarebbe, dunque, la consapevolezza che il regista di cinema può solo fraintendere, ridurre, impoverire ciò che è sulla pagina (e il caso L’amore ai tempi del colera potrebbe star lì a dar ragione ai detrattori).
Una consapevolezza che non può non poggiare sulla considerazione che, nel nostro cinema più recente, causa l’asfittica crisi di idee nella quale versa l’industria, diventa sempre più necessario, per girare un film, ancorarsi ad idee e a storie altrui. Gomorra e Caos calmo sono non solo i titoli dei film di maggior richiamo dei prossimi mesi, ma anche quelli delle opere letterarie più vendute degli scorsi. Condividono lo stesso destino di tanti Mio fratello è figlio unico, Piano solo, I vicerè o anche Ho voglia di te.

Ma a ben vedere questa rivincita della pagina sul film (rivincita resa paradossale dal fatto che viviamo, ormai, in una società in cui quasi nessuno legge più) era cominciata già da qualche anno. E non riguarda solo l’Italia!

Il caso più eclatante, in questo senso, è, forse, quello di J. K Rowling, la mamma dell’occhialuto Harry Potter. Forte della dimensione settennale della sua intricata storia, la scrittrice inglese ha sempre potuto rivendicare, sin dall’inizio, il writer’s cut sulle pellicole tratte dalle vicende dello sfortunato maghetto. La scusa, fino all’anno scorso, per il suo diritto al veto era sempre una ed una sola: quell’elemento apparentemente così marginale del racconto in quel punto della saga non poteva essere tagliato (come poteva essere desiderio degli autori del film in cerca di sintesi) perché avrebbe avuto maggior importanza nei capitoli successivi della saga. Il risultato è stato (su cinque capitoli riportati in film) una noia mortale che si affievolosce solo al terzo episodio, non a caso il più libero dalle grinfie di una mamma iperprotettiva nei confronti della propria creatura.

Ma un segno ancor più grave della miopia di questa pratica di autori tiranno è quello di Stephen King, gran guru dell’horror americano che un paio di spessi occhiali li indossa davvero.
Non seppe digerire, qualche anno fa, che un regista noto al secolo come Stanley Kubrick avesse preso in mano uno dei suoi romanzi più belli (ammettiamolo ad onor del vero) per trasformarlo in uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale.
No! A suo dire il regista non solo non aveva capito niente della sua opera immortale, ma si era soprattutto dimostrato un mediocre regista (sic!) incapace a generare la benché minima tensione narrativa (sic! Di nuovo), disseminando il film di grossolani errori (SIC!).
Poco importa che il suo genio autoriale trovi spazio di espressione soltanto sulle pagine di un libro e che, provandosi dietro la macchina da presa ci abbia regalato soltanto un tutt’altro che memorabile Brivido.
Non pago dell’affronto subito, King ricomprò i diritti della sua amata creatura e, producendo e scrivendo, tirò fuori dal cappello una miniserie televisiva che brutta non è certo, ma al paragone (se vogliamo farlo) esce alquanto malconcia.
Come malconcia esce anche la sua riedizione in salsa americana del Kingdom di Lars Von Trier da cui lo scrittore riprende la storia perdendone i risvolti più autenticamente inquietanti e l’ironia graffiante e disturbante. È un’opera di adattamento intrigante, quella di The Kingdom hospital, un romanzo televisivo la cui portata estetica deve ancora essere debitamente calcolata, ma è soprattutto l’ennesimo segno di un’invadenza della pagina scritta (da cui proviene King) rispetto all’audiovisivo (terreno di caccia incontrastato del genio danese).
Aspettiamo allora (visto che di marcio in Danimarca stiamo parlando) che Shakespeare in persona riemerga della tomba e, con piglio furioso da commendatore mozartiano, dica alla fine "Basta!" a tutte le boiate fatte in suo nome. E che magari chieda anche conto al buon Moccia del perché la sua dolente asserzione su teatro e vita tratta dal capolavoro estremo La tempesta sia finita tra le frasi di cioccolatino che costellano Scusa, ma ti chiamo amore. In fin dei conti cosa c’entra davvero Prospero con le fisime sull’età anagrafica di Raoul Bova?


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