La tv è un mondo da sperimentare - Incontro con Gianluca Maria Tavarelli

Abbiamo incontrato Gianluca Maria Tavarelli alla Libreria del Cinema. E, in esclusiva per Close-Up, il regista di alcune perle delle passate stagioni cinematografiche, come Un amore e Qui non è il paradiso, ha accettato di parlare del rapporto che lo lega ora alla televisione e dei suoi lavori ma anche del nuovo corso della fiction televisiva che, grazie all’apporto di personalità provenienti dal cinema e dal teatro, si sta svincolando da mero intrattenimento per assurgere a un livello qualitativamente più alto, senza nulla da invidiare alle recenti produzioni cinematografiche, che probabilmente potrebbero anche imparare qualche lezione…
Tu vieni dal cinema d’autore, di qualità ma anche di nicchia. Come hai vissuto il passaggio dal cinema alla televisione in termini produttivi e artistici?
Per me non è stato un cambiamento così traumatico, anche perché i miei film hanno sempre avuto un budget piuttosto ridotto e una durata delle riprese piuttosto contenuta quindi non ho faticato ad adattarmi ai tempi televisivi. Del resto, i miei lavori sono sempre film di 3 ore circa, quindi è come girare due film di un’ora e mezza canonici, mentre se mi dedicassi alla lunga serialità – cosa che non mi interessa – probabilmente i tempi sarebbero più stretti e la qualità del prodotto ne risentirebbe. E, per quanto possa sorprendere, ho sempre trovato una certa libertà nell’organizzazione del lavoro, non ho ricevuto pressioni da parte dei produttori ma anzi con loro, e in particolare con Pietro Valsecchi, che ha prodotto anche i miei film per il cinema, ho sempre avuto un rapporto molto creativo e stimolante. Naturalmente girando Paolo Borsellino, che era il mio primo lavoro per la televisione, il confronto era più assiduo, la presenza della produzione era costante ma non opprimente. Direi che in questo senso la televisione è più simile al cinema americano mainstream, dove le Majors controllano da vicino la lavorazione di una pellicola.
Al Roma Fiction Fest, durante una conferenza per la presentazione delle nuove miniserie di Sky ispirate ai film Quo Vadis Baby? e Romanzo criminale, si è parlato della maggiore libertà creativa delle fiction prodotte dalla piattaforma digitale in opposizione alla ripetitività e alla piattezza dei lavori creati per le tv generaliste. Il cavallo di battaglia di Sky è stato Boris, sitcom irriverente e innovativa. Cosa pensi di questo fenomeno? Secondo te il divario tra Rai e Mediaset da una parte e Sky dall’altra è davvero così abissale?
Boris è un prodotto sicuramente molto riuscito ma è anche un caso particolare. Lì è il lavoro di gruppo a fare la differenza. E’ un prodotto ideato e girato da un team creativo che ha goduto della massima libertà proprio perché spesso la piattaforma digitale non ha grosse pretese per quanto riguarda gli ascolti. Se hai come obiettivo il 2% di share puoi permetterti di sperimentare ad oltranza ma non credo ad esempio che una miniserie da Quo Vadis Baby? o da Romanzo criminale sarebbe poi troppo diversa dalle fiction che circolano ora su Rai e Mediaset. E’ la macchina produttiva a fare la differenza. E comunque, ci sono sostanziali diversità anche tra le reti Rai e quelle Mediaset. Queste ultime, proprio perché strettamente legate a una logica commerciale, devono spingersi più avanti nella sperimentazione, offrire un prodotto dalla confezione più attraente. Le fiction targate Mediaset mostrano una maggiore ricercatezza di script e fotografia e l’impiego stesso di registi giovani, più dinamici e innovativi ne è la dimostrazione
Paolo Borsellino, Maria Montessori e, prossimamente, Aldo Moro (con Michele Placido e Marco Foschi): i tuoi lavori per la televisione raccontano sempre grandi figure della storia del Novecento. Cosa privilegi in fase di scrittura perché il ritratto finale riesca a conciliare il fine didattico e informativo con quello prettamente artistico?
Della televisione mi interessa proprio questo: poter affrontare argomenti che trovo stimolanti e per cui so che al cinema non ci sarebbe posto, oppure, che raggiungerei soltanto una cerchia ristretta di persone. Invece è galvanizzante sapere di poter entrare in contatto con un pubblico ampio, di raggiungere grandi numeri e riuscire a raccontare una storia in cui credo, un progetto importante che ha un indubbio valore artistico ma anche educativo. Sono fiero di poter raccontare figure come quella di Maria Montessori e vedere che il pubblico resta avvinto dalla biografia di una scienziata, di una pedagogista, così come di sviscerare la personalità politica di Aldo Moro, probabilmente poco conosciuta dagli under 30.
Se prima, insomma, la televisione veniva considerata una ‘marchetta’ da fare in attesa del cinema, ora trovo che invece sia un interessante terreno di sperimentazione.
Per quanto riguarda i personaggi narrati nelle mie fiction credo che sia basilare raggiungere un equilibrio tra il privato e il pubblico. Per questo nuovo lavoro su Moro abbiamo deciso di raccontare non solo il rapimento e la prigionia ma anche (nella prima parte, di 1h e 30’) il suo lavoro politico, le scelte che ne hanno fatto il bersaglio dei brigatisti ma, soprattutto, l’agnello sacrificale della sua stessa parte politica. Ci siamo documentati a fondo sulla figura pubblica ma abbiamo indagato al contempo sull’uomo privato, recuperando le lettere scritte durante la prigionia.
E abbiamo tentato di dare un quadro esauriente di quella situazione tragica e singolare: perché Moro era imprigionato in una stanzetta di pochi metri quadri, ma i suoi carcerieri erano a loro volta prigionieri nella casa.
Racconto un appartamento da cui nessuno è uscito vivo: né lo statista, come tutti sappiamo, ma neanche Moretti e gli altri brigatisti, una generazione spezzata dall’ideologia che ha finito per trascorrere in carcere la propria esistenza.
Credo che un film come questo sarebbe improponibile per il cinema, e di certo andrebbero a vederlo solo i sostenitori di una certa parte politica, mentre mi piace pensare di poter arrivare anche dall’altra parte. Sarebbe bello favorire una presa di coscienza nello spettatore che magari si riflettesse a distanza anche nella cabina elettorale. A parte qualche piccola variazione formale, però, il mio approccio a questi film rimarrebbe sostanzialmente invariato sia per il cinema che per la tv.
Qualche mese fa Vittorio Storaro (recentemente impegnato nella direzione della fotografia di Caravaggio) ha dichiarato che la televisione, rispetto al cinema, ha la possibilità di raccontare le storie con il loro giusto ritmo: ‘in 4-5 ore la mini-serie tv ha infatti la possibilità di dare il giusto respiro al racconto’. Secondo te la maggiore lunghezza dei lavori televisivi è un punto di forza?
Direi che la durata di tre ore rappresenta per me una misura adeguata per restituire la profondità e la complessità di una storia. Nei miei film amo raccontare lunghi archi temporali e spesso c’è bisogno di un lavoro razionale e cosciente nello script e nel montaggio perché le lunghe ellissi temporali – come nel caso di Maria Montessori, ad esempio, dove perdiamo parecchi anni della sua vita e della sua carriera – non penalizzi la riuscita del film e soprattutto la comprensione del personaggio.
Credo che una narrazione più estesa renda la televisione più libera rispetto al cinema e del resto, se guardiamo al panorama nazionale, a parte ovvie eccezioni come Garrone, Sorrentino e pochi altri, i film italiani non sembrano aver molto da dire. Paradossalmente, la tv, con i suoi tempi e i suoi modi di rappresentazione, permette di portare sullo schermo soggetti che al cinema scarterebbero immediatamente.
Ma allora, tra girare film sui quindicenni che si baciano in motorino, magari con i divetti del momento, e fare televisione, bè scelgo decisamente la seconda opzione. Tornerei al cinema non solo per fare dei film, in modo generico, ma soltanto nel caso di un progetto particolarmente sentito, che avrei urgenza di raccontare.
La fiction di Marco Turco ispirata a Rino Gaetano, Il cielo è sempre più blu, ha mosso parecchie critiche per l’impronta eccessivamente romanzesca data alla vita del cantautore e la recitazione fortemente mimetica di Claudio Santamaria ha reso inutile ricorrere a filmati d’epoca o registrazioni originali. Le sole immagini di Rino vengono lasciate per i titoli di coda. Raccontando personaggi reali e storie di un passato recente anche tu sei confrontato con il problema del materiale d’archivio, di cui, a mio parere, hai fatto un uso estremamente intelligente. Come hai affrontato la questione in Borsellino e per Moro?
Io credo che il film di Marco Turco sia di buona fattura. Forse eccessivamente romanzato, chi può dirlo?, ma è comunque un passo avanti nella confezione di un prodotto qualitativamente alto, specialmente nella scelta degli attori e nella loro direzione. Per quanto riguarda l’uso di materiale d’archivio, in Borsellino l’ho ritenuto doveroso così come in altre situazioni dove la ricostruzione non potrebbe mai restituire l’intensità di un preciso fatto o momento. Non sarebbero visti con la giusta lente.
Allo stesso modo, l’uso dell’ellissi è indispensabile quando racconti la morte di persone vissute realmente, non si può rappresentare anche questo. E’ una scelta eticamente obbligata. Nei miei lavori televisivi sia io che i produttori partiamo sempre da una premessa di serietà e rispetto, sia verso la materia trattata che verso il pubblico. Voglio che il mio film sia intelligibile per un pubblico molto vasto ma senza mai scendere a compromessi di gusto. In questo la televisione è una vera scommessa
La serialità americana ha attratto molte personalità cinematografiche di rilievo, da Walter Hill a Spike Lee a Spielberg, ed è indubbio che la vera sperimentazione si faccia sul piccolo schermo e che i generi cinematografici risorgano in tv. Secondo te è possibile che anche in Italia si crei una situazione simile?
Secondo me questa tendenza in Italia già c’è. Forse perché al cinema non c’è lavoro e quindi sempre più giovani si avvicinano all’universo televisivo. E anche da parte dei produttori – come Valsecchi, ad esempio, uno dei primi a scommettere su nuovi autori – c’è più voglia di investire in questo settore, rivolgendosi non ai vecchi mestieranti ma a giovani registi capaci di portare nuova linfa all’ambiente. In realtà credo che le differenze tra tv e cinema siano sempre più sfumate e che questa linea di demarcazione si assottiglierà sempre di più. Se il cinema è appannato e in crisi la televisione è un mondo ancora da scoprire, pieno di possibilità da sperimentare…
