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La vertigine dell’Oltre nel Nuovo Cinema Italiano

Pubblicato il 11 aprile 2007 da Alessandro Izzi


La vertigine dell'Oltre nel Nuovo Cinema Italiano

Cinema e Sentimento del Sacro sono due realtà in perenne urto reciproco. L’arte delle immagini in movimento, che pure è sempre in grado di regalarci dei capolavori spesso inarrivabili, di fronte all’ineffabilità indicibile e non mostrabile dello Spirito deve sempre alzare le mani in un gesto di resa disperata e, al tempo stesso, necessaria.
L’immagine, infatti, non può dire altro che se stessa. La sua forza e la sua debolezza sono nella contingenza che non ammette alcun tipo di astrazione. Già Pasolini lamentava, nei suoi scritti teorici dedicati al Cinema, l’impossibilità di dire in immagini parole astratte come albero o casa. Perché quello che alla fine compare, sullo schermo cinematografico, malgrado tutti gli sforzi del regista, non è mai un albero, ma può solo essere, nella migliore delle ipotesi, quell’albero, con quelle foglie, con quella ruvida scorza bagnata di muschio.
Il Cinema è il trionfo dell’immanenza. Respira di un attimo che si brucia davanti allo sguardo fenomenologico di un sistema di riproduzione meccanico e freddo come la tecnologia. Mummifica la vita, per dirla con Bazin, e ne ripete, ad ogni proiezione, l’irreparabile morte. Il Cinema, insomma, nasconde dietro l’illusione di vita garantita dalle immagini in movimento, uno sterminato cimitero di Simulacri.
Difficile dire altro. Malgrado gli esperimenti impressionanti di Ejzenstejn sul montaggio cinematografico col suo disperato tentativo di rendere la grammatica dell’immagine più vicina a quella della grande filosofia, il Cinema finisce sempre per impantanarsi nel misticismo di maniera o per legarsi al giogo insopportabile del racconto, della storia esemplificativa che tenta, per metafora, di spingere la coscienza dello spettatore verso le alte vette dello Spirito.
Il Cinema non può rendere rappresentabile l’Assoluto, non può fare visibile ciò che è solo appannaggio dell’intuizione. Non poteva farlo all’epoca dei grandissimi Dreyer o Tarkovski. Men che meno può pensare di farlo oggi, nell’epoca dei reality show e del consumo indifferenziato della visione, in un mondo dove la dimensione contingente ed effimera dell’immagine è esasperata nella sua eterna moltiplicazione in schermi alla portata di telefonini.
Eppure, proprio nel cinema italiano recente, tre film, paradigmaticamente proposti in successione quasi a mimare una specie di Via Crucis di preparazione all’Avvento pasquale, hanno se non altro flirtato coi grandi temi dello Spirito tentando con forme e stili diversi di parlarci dell’oggi e dello Spirito.
Per primo è venuto In memoria di me di Saverio Costanzo che, in risposta ai paradigmi papali di una Chiesa che sempre più si rivela inferente con gli affari di uno stato a parole laico, nei fatti bigotto, ha tentato di sondare gli abissi insondabili del dubbio. Una veglia nell’orto dei Getzemani grondante sangue e sudore. Ma soprattutto un tentativo coraggioso sulla strada dell’astrazione del linguaggio mediante la musica, con le sue pause, i suoi movimenti sinuosi nel chiuso delle mura di un monastero dalle ferree regole. Il Sacro passa attraverso il sentimento del suo contrario. Il sublime è sotto l’immagine. Se noi non lo vediamo è perché lo stesso protagonista non lo vede e il suo dubbio diventa il nostro dubbio. Sicché lo spettatore può percepire un senso del Sacro perché viene messo di fronte a cosa sacro non è. Nello stesso modo in cui ci è dato di intuire l’essenza dello zero matematico solo ponendolo in relazione con un altro numerale diverso. ‘Non posso dire cos’è, ma posso pur sempre dire cosa non è!’
Premessa ideale, quella del film di Costanzo, all’ultima pellicola di Olmi che punta su una dimensione ancora più ambiziosa. Centochiodi non si oppone alla contingenza dell’immagine filmica, ma la esalta perché nella morte dell’effimero si può percepire, se lo sguardo è quello giusto, un affanno d’infinito. Certo l’Uomo, per quanti sforzi faccia nel suo disperato anelito verso l’infinito, alla fine raccoglie solo cose. Inchiodate al suolo per di più! Ma è proprio la consapevolezza dei chiodi che può permetterci di andare oltre il contingente. L’immagine si fa simbolo (all’inizio del film con la desacralizzazione del Testo) e ponte (sul Po’ coi suoi paesaggi confusi tra cielo, terra e mare) verso una dimensione ulteriore che non è dato rappresentare, ma che resta pur sempre nel non visto.
Ma nell’epoca di Maria De Filippi e di Costanzo (Maurizio non Saverio) non c’è più posto per questa riflessione sull’immagine. Olmi ne è consapevole e per questo si fa da parte. Il mondo italiano è ormai colonizzato sul modello degli adolescenti della Archibugi. E le Lezioni di volo non insegnano più l’ebbrezza delle altitudini, ma solo la medietas di una società da prima serata. Viaggiano i ragazzi di oggi. Domani sarà la volta dell’Africa di Last minute Marocco, ieri era la volta dell’India. Ma quell’India ha perso ormai il valore catartico che aveva ancora ai tempi della Beat Generation. È solo una stazione intermedia dell’immenso villaggio globale che chiamiamo mondo dove non c’è più posto per il Sentimento dell’Oltre o per un’immagine che possa ancora farcene percepire la Vertigine.


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