LAW & ORDER, CSI, COLD CASE: POLIZIESCO O NOIR?

Il proliferare in tv di serial polizieschi, che abbracciano l’ampio tema dell’indagine da ogni prospettiva possibile, rende evidente come questo genere abbia trovato nella serialità del piccolo schermo un humus più fertile per la costruzione di universi e personaggi che riflettano la complessità del reale, la crisi profonda del mondo contemporaneo, più di quanto non avvenga ormai al cinema.
Il poliziesco televisivo, abbandonato il semplice ma pur sempre efficace divertissement dell’whodunit (cfr.poirot), in cui investigatori professionisti o dilettanti risolvevano casi intricati quasi fossero dei giochi di abilità, trova atmosfere più cupe e ambientazioni metropolitane che lo avvicinano più al noir cinematografico che non alla detective story classica.
Non è però il noir degli anni 40 il referente di questi serial quanto piuttosto quello spurio degli anni 80/90: sono i film dei Friedkin o dei Mann * a costituire un modello per i personaggi e le ossessioni del nuovo poliziesco.
Thriller per definizione ma noir nello spirito, diverse pellicole in quegli anni gettano le basi per un nuovo tipo di caccia all’assassino, più “dannata” e personale. Oltre alle opere dei registi già citati, troviamo in questo filone, ovviamente, Il Silenzio degli innocenti di Demme ma anche Seven di Fincher o Il collezionista, secondo uno schema poi annacquato e plagiato in lavori successivi (e mediocri) come Nella morsa del ragno o Il collezionista di ossa.
A prescindere dalla presenza dello stesso attore – William Petersen, protagonista sia del film che del serial tv – CSI Las Vegas ha manifestato in più di un’occasione la “filiazione” da Manhunter: gli episodi che vedono Grissom dare la caccia al serial killer Paul Millander (ep. 8 prima serie e ep. 13 seconda serie) riportano in superficie le stesse ambiguità che erano parte del rapporto (a tre nel film) tra l’agente Will Graham, Dente di Fata e il dottor Lektor (Lecter nel libro e nel film di Demme).
La stessa fascinazione, la medesima estenuante competizione tra intelligenze superiori si ritrova in quegli episodi del serial che rendono estremamente labile il confine tra vittima e carnefice, una sfida continuamente rilanciata che rivela l’ossessione come parola chiave per questi nuovi (anti)eroi.
Uno dei primi polizieschi cinematografici a indagare il lato oscuro degli uomini in divisa è stato Il braccio violento della legge di William Friedkin, ripetutosi negli anni 80 con il nichilista Vivere e morire a Los Angeles; lì vedevamo due poliziotti – il buono Roy Scheider e il rissoso, violento, di certo ossessivo, “Popeye” Doyle interpretato da Gene Hackman – alle prese con un carico di droga gestito dall’elegante vilain Fernando Rey.
Le numerose scene d’inseguimento, spinte ai limiti della verosimiglianza, ricalcavano la maniacale e tormentata relazione di Doyle col suo mestiere, che cessava di esistere come lavoro pubblico per diventare ossessione privata.
E’ la stessa ansia di conoscere, di capire, di vincere il nemico che pervade i protagonisti dei numerosi serial polizieschi contemporanei – a volte persino amorali come il Vic Mackey di The Shield – rintracciabile sia nel Vincent D’Onofrio di Law & Order: C.I., che nel David Caruso di CSI Miami o anche nell’Anthony La Paglia di Senza Traccia (quanti volti cinematografici approdati ormai stabilmente in tv!).
Ma anche nell’apparentemente fragile, benché in realtà dura e ostinata, protagonista di Cold Case, serial della CBS prodotto da Jerry Bruckheimer – l’Aaron Spelling del poliziesco televisivo – executive anche dell’universo CSI e di Without a trace.
Se i protagonisti di CSI si affidano all’oggettività della scienza per arrivare quanto più vicino possibile alla realtà dei fatti, Lilly Rush in Cold Case non può avvalersi di tali indizi. Il suo compito è quello di indagare il passato, di riportare alla luce il rimosso, scandagliando storia e umori di un paese che tende a occultare i propri misteri, che desidera dimenticare. L’ossessione del ricordo, di una giustizia legittima benché tardiva, che lasci riposare in pace i morti e la nostra coscienza, è quanto anima la protagonista nella sua quest.
L’indagine di polizia, ripresa senza troppe variazioni da quella, diciamo, di un qualsiasi Tenente Colombo, viene arricchita da flashback del passato, dell’America degli anni 60 con le manifestazioni pacifiste contro la guerra in Vietnam; o di quella dei ’70, fatta di discomusic, “big hair” e cocaina: sono solo alcuni degli scenari con cui i protagonisti devono confrontarsi di volta in volta, rivivendo sogni e speranze infrante della propria nazione.
Alla disillusa consapevolezza degli investigatori si contrappone “l’innocenza” di un mondo lontano, popolato dai fantasmi che Lilly vede al termine di ogni episodio - e che durante gli interrogatori appaiono con sovrimpressioni fulminee sui volti più stanchi e invecchiati degli indiziati - in un rapporto quanto mai fertile tra presente e passato.
La metropoli, vasta e alienante, si offre come sfondo ideale: New York per lo più, in cui si muovono i personaggi di CSI New York, Law & Order e Senza Traccia; ma anche la provinciale Philadelphia di Cold Case, la violenta Los Angeles di The Shield o le città tentacolari per eccellenza, di nuovo esplorate dalla scientifica di CSI: Miami e Las Vegas.
Schiacciati dai grattacieli o frastornati dalle luci abbaglianti dei casinò, è su questo terreno, friabile e sconsacrato, che si muovono i nuovi tutori dell’ordine. Ma la soluzione, quando arriva, è sempre amara; l’indagine è sempre più un blues dell’anima. E quindi: solo un poliziesco o anche noir?
* non a caso autore di uno dei primi serial polizieschi dall’animo noir, Miami VIce
