LE NOZZE DI ANTIGONE

(Roma) - Ci immergiamo nel buio. Via d’un tratto dal kronos lineare del “reale”. Poi, luce e una donna appare lì. E’seduta, volto nascosto tra le mani. Ancora buio - eterno presente, tempo del mito? - luce, lei è in piedi in grembo ad una sedia davanti a noi. Di nuovo veniamo offerti al passaggio nel cerchio del Tempo, per la terza volta, luce: come viaggiatori semiciechi, la vediamo allo stesso posto, seduta: è lì...a prescindere dai nostri sguardi, da noi, testimoni e viandanti del tempo e nel tempo lineare. Lei emerge da un tempo altro: noi siamo invitati a parteciparvi, a condividerlo.
Questa l’ouverture de Le nozze di Antigone, spettacolo presentato qui in forma di studio.
La partitura registica di Arturo Cirillo squadra in frames di assenza/presenza di luce il montaggio (di poco meno di un’ora) del monologo, prima parte di un progetto a cura della compagnia Agresta (di cui è “capocomico” Ascanio Celestini) sulla vicenda di Edipo, in cui ognuno dei tre figli prova a rammemorare, a raccontare ricostruendo la memoria, ciascuno secondo il proprio sguardo ed il proprio destino. Qui è Antigone, attualizzata e trasportata nel contesto sociale del mondo contadino e storico dell’Italia del Fascismo e della guerra, a parlare del e con il padre e a tessere i fili della sua esistenza, del suo significato, quindi, della propria identità. Il testo scritto da Ascanio Celestini - segnalato al Premio Riccione per il Teatro 2001/02 - è un esempio di traduzione del mito in cunto, in affabulazione, in oralità che cerca, attraverso la strada della “ballata popolare”, testimone dell’errare di Edipo contadino in epoca fascista (da qui l’omaggio a Elsa Morante), di costruire una zattera essenziale, che imbarcando solo il necessario, viaggi e trasmetta una tensione, un desiderio di ricerca nel passato, nella propria storia, di se stessi e di una continuità alla propria tragedia: a quella disgrazia che “è tanto grande che una parola sola non basta a contenerla tutta”.
Antigone è l’ospite unica e la padrona della Domus scenicamente resa da un rettangolo ligneo e sapientemente evocata nelle menti degli spettatori per via di sineddoche con pochi oggetti essenziali, il tavolino da cucina con due sedie usurate, una di fronte e una a fianco, dieci paia di scarpe “scompagnate”, collocate in un disegno scenico utile a rendere un ordine disordinato, che occupano il lato a fronte degli spettatori, il lato destro e il sinistro, lì dove si posa anche un grande catino d’acqua. Ingannevolmente semplice, la scenografia. Straordinariamente evocatrice, unita alle risonanze e qualità cooptative di una parola capace di essere concreta, precisa, aderente alle cose e di tradirle, colpendo il bersaglio. La tessitura orale di Ascanio Celestini è un esempio di drama ergon e si concreta in soma, sia per l’attore che per lo spettatore.
L’azione verbale dell’attrice, sola sulla sua zattera, via via si arrotola, trasvola, si riduce a passini lievi, è terrosa e generosa, registrando un tracciato ritmico scandito dalle pause luminotecniche e da voluti squarci uditivi che in questa presentazione in forma di studio rivelano alcune smagliature nel controllo. Il dialogo immaginario di Antigone, che verso la sua foce si scoprirà un meravigliato monologo per il defunto e che scorre scandito in sezioni tematiche-emozionali precise, incastonato nelle citate interruzioni del blocco narrativo, è un composto quasi materico. Nel buio, infatti, si arriva a toccare, a tratti, i fili del racconto tesi da Antigone, percependone la consistenza - come di “ossa” - dello scheletro della ricomposizione e riconciliazione generata dalla domestica orazione del/al padre sul sacro suolo della Domus. Qui sono le scarpe i simboli del destino/condanna di Edipo alla sua esistenza di erranza, senza rifugio possibile, mentre, davanti ai nostri occhi, Antigone, energicamente fusa nella circolarità acronica di questa cerimonia agreste = arcaica della memoria, in realtà costruisce e difende proprio quella salvezza negata al padre. Come una vestale, infatti, in un costume semplice, virgineo, è custode privata della vicenda paterna di “reviviscenza”. Edipo, con cui lei continua a parlare, come se fosse vivo, è - rimane - in vita attraverso di lei, attraverso la struttura narrativa che è drammaturgicamente molto efficace nel giocare e compattare la discrasìa tra il livello del riportare in vita, trasmettere l’eredità del quotidiano (la casa con i suoi oggetti, le scarpe testimoni e veicoli di un “vissuto” condiviso con il padre, l’iterazione del gestus umile di Antigone del lavarsi le mani nell’acqua, come a purificarsi e tendere ad un “Sacro”) e quello del ritmico evocare il Mito (agreste, sottolineato dalla soluzione sonora della regia di spezzare il continuum recitativo monologante con inserti di un coro “rustico” dai timbri sgraziati e striduli). Nel climax finale è Antigone a sposare il padre, come a dare continuità alla sua storia, alla sua eredità ed a sciogliere i conflitti. Assistiamo ad un connubio riuscito, saldato con forza nell’incontro tra l’inarrestabile e solare vis attorica della giovane protagonista Veronica Cruciani (riconosciuta e premiata dagli spettatori) e la tessitura scritta per essere orale di Ascanio Celestini.
Attendiamo di assistere al progetto completo.
[giugno 2003]
Uno spettacolo di Veronica Cruciani e Arturo Cirillo
drammaturgia: Ascanio Celestini
luci: Gianni Staropoli
musica: Francesco de Melis
scene: Massimo Bellando Randone
interprete: Veronica Cruciani
produzione: Compagnia Agresta
