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LE SCONOSCIUTE: Pensieri sparsi su maternità e nuovo cinema italiano

Pubblicato il 30 ottobre 2006 da Alessandro Izzi


LE SCONOSCIUTE: Pensieri sparsi su maternità e nuovo cinema italiano

All’interno di un panorama cinematografico come quello italiano che, negli ultimi anni, è sembrato dominato da figure maschili e da rappresentazioni spesso anche molto sofferte di rapporti padri-figli, La sconosciuta brilla per una sua posizione di contro tendenza che lo affianca, in effetti, a pochi altri titoli di rilievo.
Pensiamo a opere come Cuore sacro di Ferzan Ozpetek (titolo problematico e spesso molto frainteso), La bestia nel cuore di Cristina Comencini o I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza. Opere, queste, che, a ben guardare, hanno in comune qualcosa di più che non il semplice mettere al centro del discorso forti figure femminili.

Comune a tutti i titoli è, infatti, una certa attenzione (che in alcuni momenti si ammanta di precise vocazioni psicoanalitiche più o meno dichiarate) alla difficoltà di una “definizione sociale” di femminilità e di maternità all’interno di una cultura, come quella italiana contemporanea, in cui l’istituzione familiare va sempre più disgregandosi e annullandosi.

Non solo vengono a mancare punti di riferimento sentimentali nel presente (come per Olga abbandonata, nel film di Faenza, dal marito), ma si fa strada, nel corpo dei vari racconti, un senso di dissoluzione che proviene tutto da un passato rimosso (la Sabina di La Bestia nel cuore che ha cancellato dalla memoria ogni traccia della desolante realtà delle violenze subite quando era bambina) o rabbiosamente in cerca di riscatto personale come nel caso, appunto, del film di Tornatore.

Nella desolazione affettiva del mondo contemporaneo, dove i bambini per primi non hanno più figure genitoriali cui fare riferimento e finiscono sballottati tra stanze d’albergo e litigi violenti (un tema che ritroviamo anche in Il caimano di Moretti dove pure al centro è posta chiaramente una figura maschile) ad essere messa in crisi è l’immagine stessa della donna come collante dell’unione familiare e come vero e proprio “rifugio” (per i padri, per i figli e per loro stesse) dalle ostilità del mondo circostante. Anzi il microcosmo familiare, un tempo realtà positiva cui fare ritorno nei momenti di crisi, si trasforma in un microcosmo concentrazionario dove collidono e stridono conflitti che sembra impossibile risolvere e che esplodono in nevrosi più o meno laceranti non solo nel contesto dei film più apertamente drammatici, ma anche nel terreno più franco della commedia come nel caso della Margherita Buy di due film molto diversi eppure incredibilmente simili: Manuale d’amore di Gianni Veronesi e Caterina va in città di Paolo Virzì. In entrambe le pellicole il personaggio femminile sconta sulla propria pelle la presenza/assenza di un marito incapace al dialogo, svogliato nella coltivazione del rapporto interpersonale e tendenzialmente più bambino e figlio (coi suoi piccoli egoismi) di quanto non sappia essere amante e uomo.

In una realtà sociale così problematica, dove anche la donna si trova costretta dalle situazioni ad abbandonare la vecchia posizione sociale della massaia volenterosa per prendere la movenze decise di una donna in carriera, lo stesso desiderio di maternità deve passare per una sublimazione ed un ripensamento radicali.

La costituzione di un universo familiare tradizionale è impossibile, ad esempio, sia per la triste Irene di Cuore Sacro che, ancor più, per la povera Irena di La sconosciuta che, dopo l’ultimo parto infelice perde ogni possibilità di avere altri figli. E in entrambi i film, che mettono in scena anche le difficoltà di rapportarsi con un passato doloroso ed inconoscibile, ad essere posto al centro del discorso è proprio il bisogno di definirsi in quanto madri in un mondo che non riconosce loro tale diritto.
In entrambi i casi il passato riemerge nel corpo del presente secondo forme non pacificate, si intrufola negli interstizi del “momento” con la violenta invadenza di una riemersione incontrollabile e non è un caso che tutte e due le pellicole finiscano per affidarsi alle logiche del giallo (in Tornatore con la violenta imposizione di una suspence che non conosce mai un attimo di tregua) per evidenziare la difficoltà profonda di una scoperta che non può non portare al dramma. In entrambi i casi ogni contraddizione interiore ed ogni tragedia personale si risolvono nello sguardo finale di una figlia (ri)conosciuta che rinsalda un legame familiare sia pure nello spazio mitico di un altrove al di fuori della storia (si pensi, nel film di Ozpetek, al quadro, nascosto in soffitta, che ritrae la madre della protagonista donandole, in un meccanismo speculare che rilancia all’infinito il susseguirsi generazionale, le stesse fattezze della figlia morta prima ancora di essere davvero conosciuta). Senza dimenticare che le assonanze tra i personaggi cominciano sin dal nome comune: Irene/a che, dal greco, paradossalmente vuol dire proprio quella pace di cui sono alla ricerca disperata e che sembra essere sempre loro negata.

In entrambi i casi, infine, il riconoscimento di un legame passa attraverso i dettagli di una serie di affinità elettive impensabili che determinano un senso di famiglia anche laddove viene a mancare ogni legame di sangue.
Irina riconosce nella piccola Tea la propria figlia senza bisogno di vere prove tangibili (la scoperta del documento nella cassaforte non ha quasi nessun peso narrativo ed anzi sembra essere più un McGuffin che non un vero motore narrativo). Sono le comunanze di fondo, le identità profonde che si scoprono mano a mano a creare il legame tra le due: un legame di affetti più profondo, quasi, del legame del sangue. Irena vede in Tea gli stessi dolori che l’hanno privata della sua stessa femminilità. La piccola non può rispondere alle violenze che la circondano, è sola ed inerme di fronte al dolore, come lo era Irena durante il “trattamento”, quando, legata ed imbavagliata, era costretta a subire ogni forma immaginabile di violenza. Le somiglianze interiori (che si rincorrono in montaggi per affinità tra il passato della donna ed il presente della bambina) si riversano anche in identità iconiche laddove madre e figlia per elezione si assomigliano nel modo di muoversi e spiare (la bambina ascolta i genitori che litigano, la donna cerca il segreto nascosto) o, anche semplicemente nel modo di tenere i capelli.

Ma è quanto meno sintomatico che questa disperata storia di maternità negata, che ha quasi le movenze di uno Stabat Mater, debba ricorrere ad una protagonista extra comunitaria. Come se la sua contenuta tragedia non avrebbe potuto essere altrettanto credibile, se al centro del discorso ci fosse stata una donna italiana. Perché l’Italia, in fondo, ha perso quel legame dal sapore di terra che, pare, unisca ancora madri e figlie nei paesi meno industrializzati. Qui, soprattutto nel gelido nord delle fabbriche e del lavoro qualcosa sta davvero cambiando irreversibilmente.

[Ottobre 2006]


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